Il sistema giudiziario italiano, fino a circa 50 anni fa, non prevedeva una tutela diretta ed immediata nel caso venisse violato un diritto fondamentale del cittadino: quello della certezza e celerità del diritto durante l’espletamento di un processo giudiziario, richiedendo che lo stesso giungesse a conclusione in un termine breve e ragionevole.
Spesso, infatti, la notevole burocrazia, le storture giudiziarie e la mole di lavoro rispetto agli effettivi addetti ad amministrare la giustizia, hanno portato ad attese sconcertanti e abnormi dei giudizi pendenti, a volte superando i decenni prima di avere contezza della risoluzione dei casi, con conseguenti danni patrimoniali e non, per coloro che subiscono l’incertezza della situazione giuridica.
Un primo intervento per riconoscere e tutelare il diritto ad una ragionevole durata del processo è sorto grazie alla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con sede a Strasburgo, in applicazione della Convenzione Europea per la Salvaguarda dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, nota come CEDU, sottoscritta e recepita dai Paesi europei, tra cui l’Italia.
Ricordando l’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, la Corte di Strasburgo ha dato vita, in un cinquantennio di attività, ad una scia di sentenze che riconoscevano il diritto ad ottenere un equo indennizzo, calcolato tra un minimo ed un massimo a seconda degli anni di ritardo, in seguito al pregiudizio subito, qualora un processo si fosse protratto oltre un termine considerato ragionevole.
La nostra Costituzione, seppur relativamente giovane, non aveva però previsto il riconoscimento di un simile diritto, accanto al preminente e fondamentale diritto alla difesa (art. 24 Cost.); sarà solo con la riforma avvenuta nel 1999 che i principi del giusto processo faranno ingresso nella nostra Carta Costituzionale, attraverso la riformulazione dell’art. 111 e il contestuale richiamo dell’art 6 CEDU, ponendosi come norma di riferimento per la tutela di questa garanzia costituzionale. In tal modo, il principio della ragionevole durata del processo non sarà più considerato vigente in applicazione di una norma interposta, ma sarà direttamente applicato e tutelato grazie alla sua previsione nel testo costituzionale.
In ogni caso, però, fino al 2001, la Corte competente a ricevere i ricorsi in esame era la stessa Corte Europea, che si è ritrovata letteralmente oberata da richieste di indennizzo, in quanto non vi era un rimedio nazionale “interno” per tutelare simili pregiudizi. Il legislatore italiano ha posto rimedio a questa lacuna giuridica, sollecitato anche dai continui richiami della stessa Autorità Europea che ha sottolineato, in diversi episodi, l’inefficienza del sistema giudiziario italiano e la grave disapplicazione della normativa CEDU, oltre che la violazione dell’art.111 Costituzione, a discapito dei cittadini italiani.
Se, dunque, inizialmente, l’unico strumento di tutela per i cittadini era azionabile dinanzi alla Corte richiamata, con la nota Legge Pinto del 2001, la n. 89, si insedia nel nostro sistema giudiziario un nuovo percorso azionabile da tutti coloro che, parti processuali di un giudizio, lamentino la lesione al diritto ad un processo certo, celere e tempestivo, richiedendo così un equo indennizzo. Il ricorso alla Corte di Strasburgo diventa, in tal modo, meramente sussidiario, dovendosi adire, in prima battuta, il Giudice italiano.
La competenza secondo il testo originario
L’art. 3 della Legge Pinto, nel testo originario, introduce la competenza del Giudice italiano al fine di instaurare il giudizio per l’equa riparazione e afferma testualmente: “la domanda di equa riparazione si propone dinanzi alla corte di appello del distretto in cui ha sede il giudice competente ai sensi dell’articolo 11 del codice di procedura penale a giudicare nei procedimenti riguardanti i magistrati nel cui distretto è concluso o estinto relativamente ai gradi di merito ovvero pende il procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata”.
In primis, occorre dire che il legislatore ha voluto garantire che il processo per il riconoscimento dell’equo indennizzo fosse condotto da magistrati terzi, indipendenti e imparziali rispetto al processo oggetto della lamentata lungaggine; la conseguenza di tale premura è stata quella di evitare che il giudice competente fosse lo stesso presso cui si assumesse violato il diritto in oggetto. L’articolo predetto stabilisce una competenza inderogabile per materia della Corte di Appello, rinviando però, ai fini della determinazione della competenza per territorio, al criterio stabilito dall’art. 11 cpp, attinente ai procedimenti penali riguardanti i magistrati.
L’art. 11 cpp, a sua volta, per poter determinare il giudice competente a decidere nei procedimenti in cui è parte un magistrato, e per poter garantire un processo che sia equo ed imparziale, neutrale e affidabile, fa riferimento ad una tabella, introdotta con la Legge n. 420/1998, applicando la quale si potrà rilevare la sede distrettuale della competente Corte di Appello. Con il richiamo contenuto dalle legge Pinto, la stessa tabella si applica anche per il procedimento di equa riparazione che stiamo esaminando, in considerazione dell’importanza, in tale sede, anche dell’eventuale responsabilità del magistrato designato alla trattazione del giudizio presupposto e/o della responsabilità erariale, necessitando di un elevato grado di terzietà e di equidistanza.
Ponendo un esempio per comprendere, se la violazione del diritto alla ragionevole durata del processo fosse avvenuta dinanzi ad un Giudice del distretto della Corte di Appello di Bari, competente a decidere del ricorso, in applicazione della tabella A ex legge n. 420/98, sarebbe la Corte di Appello di Lecce; se la violazione si fosse verificata nel distretto della Corte di Appello di Lecce, la competenza territoriale si sarebbe spostata a Potenza; così come se la violazione fosse stata attuata presso un Giudice del circondario appartenente al distretto della Corte di Appello di Firenze, competente a decidere il ricorso sarebbe stata la Corte di Appello di Genova.
Il ricorso, inoltre, deve essere proposto nei confronti del Ministero della Giustizia, se si tratta di procedimenti del giudice ordinario; nel caso di procedimenti militari, si propone nei confronti del Ministero della Difesa; in caso di processo tributario, deve essere proposto nei confronti del Ministero dell’Economia e delle Finanze; in tutti gli altri casi, infine, si propone nei confronti del Presidente del Consiglio dei Ministri.
Si rende, così, evidente uno spostamento di competenza a seconda del luogo (ossia il distretto della Corte di Appello in cui esercita le sue funzioni il Giudice del processo contestato) in cui si ritiene commessa la violazione del diritto; uno spostamento, questo, che comporta non pochi oneri per coloro che devono attivare il giudizio, data la traslazione territoriale ai fini dell’insediamento del ricorso.
Alle spese giudiziarie si è aggiunta un’altra problematica nel corso del tempo: l’elevato aumento del carico giudiziario per alcune Corti di Appello rispetto ad altre, con un conseguente ed ulteriore ritardo giudiziario, in relazione anche al ridotto organico dell’ufficio giudiziario che doveva sopportare la mole di processi.
Una sproporzione, questa, durata diversi anni, nonostante la Legge Pinto fosse stata modificata sia nel 2007 che nel 2012, lasciando però inalterata la dibattuta questione della competenza territoriale.
La legge di stabilità del 2016 riforma la competenza
Questione, invece, analizzata con la legge di stabilità del 2016 (Legge n. 208/2015) che ha riformato la Legge Pinto in più punti, compreso la determinazione del giudice competente.
Il nuovo art. 3 della Legge stabilisce oggi quanto segue: “la domanda di equa riparazione si propone con ricorso al presidente della corte di appello del distretto in cui ha sede il giudice innanzi al quale si è svolto il primo grado del processo presupposto. Si applica l’articolo 125 del codice di procedura civile”.
La differenza rispetto al passato è notevole: eliminato ogni riferimento al criterio tabellare, il ricorso per ottenere l’equo indennizzo in esame attualmente non deve essere più proposto ad un giudice di una differente Corte di Appello, ma al Presidente della Corte di Appello nel cui distretto ha sede il Giudice del processo tacciato di eccessiva durata, con la puntualizzazione però che nel collegio giudicante non può far parte, inevitabilmente, lo stesso Giudice che ha presieduto il giudizio presupposto, oggetto di ricorso. La ragione è indubbia: si rischierebbe un coinvolgimento e un potenziale “influenzamento” del collegio giudicante, venendo meno la garanzia di imparzialità che si rende necessaria in tali casi.
La riforma in esame ha sicuramente redistribuito il carico di lavoro delle Corti di Appello, dando una svolta di efficienza al sistema giudiziario, ma altrettanto non si potrebbe affermare per quanto riguarda la garanzia di terzietà e imparzialità che dovrebbe caratterizzare questo strumento giuridico.
La possibilità, infatti, che il Giudice da nominare sia scelto nello stesso distretto della Corte di Appello in cui svolge le funzioni giudiziarie anche lo stesso Giudice del processo sotto accusa, potrebbe far sorgere dei dubbi in merito alla sua richiesta equidistanza, creando una vera e propria debolezza nel sistema.
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