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Legge Pinto ed Equo Indennizzo

E’ oramai tristemente nota la lungaggine dei processi, in Italia l’esercizio della giustizia non è materia semplice. I tempi dei processi sono biblicamente lunghi nonostante persino i padri costituenti, conoscendo forse le tendenze autodistruttive dell’italiota si fossero preoccupati di garantire il diritto ad un procedimento celere.
Tutti i cittadini si trovano spesso a dover fare i conti con processi senza fine, per vedersi riconoscere un diritto, o quantomeno poter scrivere la parola fine su un contenzioso durato anni.

Più volte il legislatore ha tentato di introdurre modifiche al Processo senza però raggiungere alcun risultato positivo che potesse garantire una maggior celerità.

Ebbene, in base alla L. 89 del 24 marzo 2001 (c.d. “ legge Pinto”), chi, attore o convenuto, è, o è stato, coinvolto in un procedimento per un periodo di tempo irragionevole, HA DIRITTO AD UNA EQUA RIPARAZIONE indipendentemente dall’esito del processo.

La legge 89 del 24 marzo 2001, infatti, ha recepito i principi della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali in relazione al mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’articolo 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali che testualmente recita:

“Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge”.

Tale norma diviene strumento volto ad ottenere una equa riparazione a colui che ha subito un danno patrimoniale e non patrimoniale per effetto della violazione dei succitati principi della Convenzione, peraltro già costituzionalmente previsti.

Sicché l’eccessiva domanda di risarcimenti ha spinto il legislatore ha riformare la materia apportando numerose modifiche, introdotte dal D.L.8 aprile 2013, n. 35, convertito con modificazioni nella L. 6 giugno 2013, n. 64 e dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, con modificazioni nella L. 7 agosto 2012, n. 134. Tutte queste innovazioni non hanno fatto altro che inserire diversi “cavilli” con il malcelato tentativo di scoraggiare l’inoltro di ulteriori domande.
Nonostante l’introduzione di questi “cavilli”, è ancora possibile ottenere diverse migliaia di euro come indennizzo per essere stato parte di un procedimento eccessivamente lungo.

A QUANTO AMMONTA L’EQUO INDENNIZZO ?

In base alla legge Pinto, e successive modifiche, qualora il procedimento superi una durata di tempo ragionevole, stimata dal legislatore in 3 anni per il procedimento di primo grado, 2 anni per il secondo ed 1 anno per la cassazione a prescindere dall’esito della lite e/o in caso di conciliazione della lite.

SI HA DIRITTO AD UNA SOMMA DI DENARO PER OGNI ANNO DI ECCESSIVA DURATA DEL PROCESSO PARI A CIRCA 400-800 euro;

somma che può aumentare, di rado, in casi di particolare importanza (ed es. in tema di diritto di famiglia o stato delle persone, procedimenti pensionistici o penali, cause di lavoro o cause che incidano sulla vita o sulla salute).

La durata del tempo “ragionevole” deve tenere in considerazione diverse circostanze tra cui la complessità del procedimento ed il comportamento delle stesse parti e del giudice.

Per presentare il ricorso si ha un termine di sei mesi dal passaggio in giudicato della sentenza che definisce il processo. All’ incirca entro un anno si riuscirà quindi ad ottenere il dovuto risarcimento.

——>ATTENZIONE!!! Scaduti i sei mesi, la parte è considerata decaduta dal proporre il ricorso.

***

Se ritiene di aver subito o di subire un procedimento dalla durata irragionevole, ed hai intenzione di proporre ricorso per ottenere il dovuto risarcimento, chiama il numero verde 800-973078. Riceviamo presso lo Studio Legale in Bari.

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Durante il primo colloquio valuteremo l’effettiva possibilità di ottenere il risarcimento previsto dalla legge Pinto e/o ricevere informazioni al riguardo.

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Rimedi preventivi – Giudice di pace

Civile Sent. Sez. 2 Num. 21876 Anno 2023

“nei processi civili davanti al giudice di pace, ai fini dell’ammissibilità della domanda di equa riparazione per la violazione del termine ragionevole di durata, ex artt. 1-bis, 1-ter, comma 1, e 2, comma 1,
della legge n. 89 del 2001, sussiste per la parte l’onere di esperire il rimedio preventivo della proposizione dell’istanza di decisione a seguito di trattazione orale a norma dell’art. 281-sexies c.p.c., in
quanto, pur costituendo la “regola”, in base al modello dell’art. 321 c.p.c. (nella formulazione antecedente alle modifiche operate dal d.lgs. 149 del 2022), che la decisione della causa in tali processi
avvenga a seguito di discussione orale, detta istanza non è incompatibile strutturalmente con il rito davanti al giudice di pace, alla stregua dell’art. 311 c.p.c., e riveste comunque funzione
acceleratoria in riferimento alle modalità di discussione della causa, redazione della sentenza e pubblicazione della stessa”.

illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, della legge 24 marzo 2001, n. 89

La recente sentenza della Corte Costituzionale ha stabilito che è incostituzionale una parte dell’articolo 2, comma 1, della legge del 24 marzo 2001, n. 89. Questa legge riguarda la compensazione equa per violazioni dei tempi ragionevoli di processo e modifica l’articolo 375 del codice di procedura civile. La specifica parte dichiarata incostituzionale riguarda la norma che rende inammissibile la richiesta di compensazione equa se non è stato prima utilizzato il rimedio preventivo menzionato nell’articolo 1-ter, comma 6, della stessa legge. (ovvero, nella parte in cui subordina il riconoscimento del diritto
ad una equa riparazione, in favore di chi abbia subito un danno patrimoniale o non patrimoniale a causa
dell’irragionevole durata di un processo, all’esperimento del rimedio preventivo consistente nel deposito, nei
giudizi davanti alla Corte di cassazione, di un’istanza di accelerazione almeno due mesi prima che sia
trascorso il termine di cui all’art. 2, comma 2-bis, della medesima legge.
)

SENTENZA N. 142
ANNO 2023
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Silvana SCIARRA; Giudici : Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco
MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco
VIGANÒ, Luca ANTONINI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosara SAN
GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1-ter, comma 6, della legge 24 marzo 2001, n. 89
(Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica
dell’articolo 375 del codice di procedura civile), promosso dalla Corte d’appello di Firenze, sezione quarta
civile, nel procedimento vertente tra il Ministero della giustizia e B. A. e altri, con ordinanza del 26 ottobre
2021, iscritta al n. 85 del registro ordinanze 2022 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n.
34, prima serie speciale, dell’anno 2022.
Udito nella camera di consiglio del 7 giugno 2023 il Giudice relatore Nicolò Zanon;
deliberato nella camera di consiglio del 7 giugno 2023.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 26 ottobre 2021 (reg. ord. n. 85 del 2022), la Corte d’appello di Firenze, sezione
quarta civile, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1-ter, comma 6, della legge 24
marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo
e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), inserito dall’art. 1, comma 777, lettera a), della
legge 28 dicembre 2015, n. 208 recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale
dello Stato (legge di stabilità 2016)», nella parte in cui subordina il riconoscimento del diritto ad una equa
riparazione – in favore di chi abbia subito un danno patrimoniale o non patrimoniale a causa
dell’irragionevole durata di un processo – all’esperimento del rimedio preventivo consistente nel depositare
nei giudizi davanti alla Corte di cassazione un’istanza di accelerazione almeno due mesi prima che siano
trascorsi i termini di cui all’art. 2, comma 2-bis, della medesima legge. Il giudice a quo lamenta il contrasto
della disposizione censurata con gli artt. 111, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione,
quest’ultimo in relazione agli artt. 6, paragrafo 1, e 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo
(CEDU).
2.– La Corte rimettente riferisce di essere stata investita dell’opposizione ex art. 5-ter della legge n. 89
del 2001, proposta dal Ministero della giustizia contro il decreto che ha accolto la domanda di equa
riparazione avanzata in data 22 ottobre 2019 dai ricorrenti B. A. e altri, in relazione alla durata non
ragionevole della fase di legittimità di un precedente giudizio di equa riparazione.
Il Ministero della giustizia, tra i vari motivi di opposizione, ha eccepito l’inammissibilità della domanda
dei ricorrenti, in quanto nel giudizio presupposto non risultava depositata, davanti alla Corte di cassazione,
l’istanza di accelerazione di cui all’art. 1-ter, comma 6, della legge n. 89 del 2001.
In riferimento a tale ultima disposizione, i ricorrenti opposti hanno formulato eccezione di illegittimità
costituzionale, che è stata ritenuta rilevante e non manifestamente infondata.
3.– In punto di rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale, dopo aver affermato che tutti gli
altri motivi di opposizione proposti dal Ministero della giustizia «non sembrerebbero in grado, nella
particolare prospettiva decisionale da adottare nella presente sede, di condurre all’accoglimento
dell’opposizione stessa», il rimettente ha sostenuto che è invece incontroversa la mancata presentazione, da
parte degli opposti, dell’istanza di accelerazione davanti alla Corte di cassazione ex art. 1-ter, comma 6,
della legge n. 89 del 2001, norma ritenuta «applicabile […] ratione temporis». Per tale ragione, la domanda
di equa riparazione sarebbe inammissibile e l’opposizione del Ministero dovrebbe essere accolta.
Secondo il giudice a quo, infatti, la disposizione censurata troverebbe applicazione anche nelle ipotesi in
cui il giudizio presupposto – come appunto accade nel caso di specie – sia anch’esso un procedimento per
equa riparazione, dovendosi considerare quest’ultimo alla stregua di un giudizio ordinario.
4.– Quanto alla non manifesta infondatezza, la Corte d’appello di Firenze, descritto il quadro normativo
ed illustrato il contenuto delle disposizioni di cui agli artt. 1-bis, 1-ter e 2, comma 1, della legge n. 89 del
2001, ha richiamato le sentenze di questa Corte n. 175 del 2021, n. 121 del 2020, n. 169 e n. 34 del 2019,
evidenziando come esse abbiano risolto, nel senso dell’illegittimità costituzionale delle disposizioni di volta
in volta censurate, questioni che presentavano «caratteristiche di forte analogia» con quelle sollevate
nell’odierno giudizio.
Nelle decisioni citate, infatti, questa Corte, richiamando l’orientamento espresso dalla Corte europea dei
diritti dell’uomo, avrebbe affermato il principio per cui i rimedi preventivi contro la durata eccessiva dei
procedimenti sono ammissibili solo se «effettivi» ed efficacemente sollecitatori. Tali essi sarebbero solo in
quanto velocizzino davvero la decisione da parte del giudice competente, offrendo una reale garanzia di
contrazione dei tempi processuali, anche attraverso la messa a disposizione della parte, interessata a
prevenire la violazione del termine ragionevole di durata, di un modello procedimentale alternativo «in
grado di condurre a tale risultato». Non sarebbero conformi ai parametri invocati, invece, quei rimedi che
costituiscano «una mera facoltà», con effetto «puramente dichiarativo di un interesse già incardinato nel
processo» e di mera «prenotazione della decisione» (che può comunque intervenire oltre il termine di
ragionevole durata del correlativo grado di giudizio, nonostante l’esperimento del rimedio). Essi, infatti, si
risolverebbero in un mero «adempimento formale», rispetto alla cui violazione la sanzione consistente
nell’improponibilità o inammissibilità della domanda di equa riparazione apparirebbe come non ragionevole e non proporzionata.
In particolare, la Corte rimettente osserva come anche l’istanza di accelerazione da depositare nel
giudizio davanti alla Corte di cassazione rappresenti un tipo di rimedio preventivo che non presenta alcuna
reale efficacia acceleratoria del processo, non introduce modelli procedimentali alternativi e «non comporta
alcuna garanzia di contrazione dei tempi del processo, integrando l’esercizio di una facoltà della parte che,
sostanzialmente, ribadisce in questo modo un interesse che è già incardinato in capo ad essa».
Considerato in diritto
1.– La Corte d’appello di Firenze, sezione quarta civile, solleva questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 1-ter, comma 6, della legge n. 89 del 2001, nella parte in cui subordina il riconoscimento del diritto
ad una equa riparazione, in favore di chi abbia subito un danno patrimoniale o non patrimoniale a causa
dell’irragionevole durata di un processo, all’esperimento del rimedio preventivo consistente nel deposito, nei
giudizi davanti alla Corte di cassazione, di un’istanza di accelerazione almeno due mesi prima che sia
trascorso il termine di cui all’art. 2, comma 2-bis, della medesima legge.
Viene prospettato il contrasto con gli artt. 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost.,
quest’ultimo in relazione agli artt. 6, paragrafo 1, e 13 CEDU.
La Corte rimettente riferisce di essere stata investita dell’opposizione proposta, ai sensi dell’art. 5-ter
della legge n. 89 del 2001, dal Ministero della giustizia contro un decreto di accoglimento della domanda di
equa riparazione avanzata per l’eccessiva, e dunque non ragionevole, durata di un precedente procedimento
di equa riparazione, con particolare riferimento al giudizio svoltosi davanti alla Corte di cassazione.
Il Ministero della giustizia, tra i vari motivi di opposizione, ha eccepito l’inammissibilità della domanda,
non avendo i ricorrenti depositato, nel giudizio presupposto, l’istanza di accelerazione di cui all’art. 1-ter,
comma 6, della legge n. 89 del 2001.
2.– In punto di rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale, ritenuti non fondati i restanti motivi
di opposizione articolati dal Ministero della giustizia, il giudice a quo sostiene essere incontroversa la
mancata presentazione dell’istanza di accelerazione richiesta dalla disposizione censurata, espressamente
ritenuta applicabile ratione temporis. Per tale motivo, sarebbe fondata l’eccezione d’inammissibilità
proposta e l’opposizione dovrebbe conseguentemente trovare accoglimento.
3.– Quanto alla non manifesta infondatezza, la Corte d’appello di Firenze, dopo aver illustrato il quadro
normativo di riferimento, richiama alcune pronunce con le quali questa Corte avrebbe accolto questioni che
presentavano «caratteristiche di forte analogia» con quelle sollevate nell’odierno giudizio (sentenze n. 175
del 2021, n. 121 del 2020, n. 169 e n. 34 del 2019).
Tali decisioni, ricordando l’orientamento espresso dalla Corte EDU, hanno ritenuto costituzionalmente
illegittimi alcuni dei rimedi preventivi previsti dalla legge n. 89 del 2001 – in seguito alle modifiche a
quest’ultima apportate dalla legge n. 208 del 2015 – escludendo che essi fossero «effettivi» ed efficacemente
sollecitatori e, dunque, in grado di velocizzare davvero la decisione da parte del giudice competente.
Il rimettente, quindi, osserva che anche l’istanza di accelerazione da depositare nel giudizio davanti alla
Corte di cassazione costituirebbe un tipo di rimedio preventivo privo di alcuna reale efficacia acceleratoria
del processo, non introducendo modelli procedimentali alternativi e non comportando alcuna garanzia di
contrazione dei tempi del processo medesimo.
4.– In via preliminare, è utile ricostruire brevemente il quadro normativo di riferimento.
La legge n. 208 del 2015, nel modificare la legge n. 89 del 2001, che prevede e disciplina il diritto di
richiedere un’equa riparazione in caso di eccessiva durata di un processo, vi ha introdotto l’art. 1-bis,
comma 1, secondo cui «[l]a parte di un processo ha diritto a esperire rimedi preventivi», da attivarsi proprio
allo scopo di scongiurare la violazione dell’art. 6, paragrafo 1, CEDU, sotto il profilo del mancato rispetto di
termini ragionevoli per la conclusione di un processo.
Tali termini sono definiti dal successivo art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001, secondo cui, per
quanto qui interessa, nel giudizio di legittimità il processo non deve eccedere la durata di un anno.
All’art. 1-ter della medesima legge è affidato il compito di indicare i rimedi preventivi, calibrati in
relazione a ciascuna tipologia di processo: per il giudizio di legittimità, in particolare, il comma 6 dispone
che «[n]ei giudizi davanti alla Corte di cassazione la parte ha diritto a depositare un’istanza di accelerazione
almeno due mesi prima che siano trascorsi i termini di cui all’articolo 2, comma 2-bis».
Le conseguenze della mancata attivazione di tale strumento sono disciplinate dall’art. 2, comma 1, il
quale – come ha evidenziato la Corte d’appello rimettente – sancisce l’inammissibilità della «domanda di
equa riparazione proposta dal soggetto che non ha esperito i rimedi preventivi all’irragionevole durata del
processo di cui all’articolo 1-ter».
Ne deriva che, come già affermato da questa Corte in riferimento all’analogo istituto dell’istanza di
accelerazione prevista per il processo penale dal comma 2 del citato art. 1-ter, anche il deposito dell’istanza
di accelerazione nel giudizio davanti alla Corte di cassazione, «pur presentato come diritto alla stregua
dell’art. 1-bis, comma 1, della legge n. 89 del 2001, opera, piuttosto, come un onere, visto che il mancato
adempimento, in base al comma 1 del successivo art. 2, comporta l’inammissibilità della domanda di equa
riparazione» (sentenza n. 175 del 2021).
5.– Ciò premesso, occorre in primo luogo definire il thema decidendum.
Il dispositivo dell’ordinanza di rimessione circoscrive l’oggetto delle questioni sollevate al solo art. 1-ter
, comma 6, della legge n. 89 del 2001. Tuttavia, le argomentazioni spese nella motivazione dell’ordinanza, e
la stessa principale censura avanzata, ruotano attorno alla sanzione d’inammissibilità della domanda,
prevista dal successivo art. 2, comma 1, nel caso in cui il diritto ad esperire il rimedio preventivo in esame
non sia esercitato (recte: l’onere di ricorrere ad esso non sia adempiuto).
Secondo la Corte rimettente, infatti, l’eccezione di illegittimità costituzionale formulata dai ricorrenti
acquista rilevanza – e, al contempo, non si può ritenerne la manifesta infondatezza – proprio «[i]n relazione
[…] al motivo di opposizione» articolato dal Ministero della giustizia, in riferimento all’inammissibilità
della domanda di equa riparazione derivante dal «mancato esperimento del rimedio preventivo dell’istanza
di accelerazione».
Risulta evidente, allora, che la Corte d’appello di Firenze intende censurare l’intero congegno
normativo, la cui applicazione porta a sanzionare con l’inammissibilità della domanda di equa riparazione la mancata presentazione, nei termini prescritti, dell’istanza di accelerazione nel corso del giudizio davanti alla Corte di cassazione.
Nel ricordare gli orientamenti della giurisprudenza costituzionale, del resto, il Collegio a quo afferma
che le pronunce richiamate sono accomunate dalla valutazione in termini di illegittimità costituzionale di
quei rimedi preventivi «valorizzati dall’art. 2, n. 1, L. 89/2001 – mediante il riferimento all’art. 1ter della
medesima legge – in termini di inammissibilità della domanda di equa riparazione».
L’oggetto delle questioni effettivamente sollevate va individuato alla stregua del contenuto delle censure
formulate nella stessa ordinanza di rimessione (sentenze n. 148 del 2022, n. 234 e n. 224 del 2020), e quindi
ricostruendo l’effettiva volontà del rimettente in base ad una lettura coordinata della motivazione e del
dispositivo (sentenze n. 35 del 2023, n. 228 e n. 88 del 2022). Questa Corte, infatti, ha già chiarito che
«un’interpretazione non formalistica del canone dell’esatta ed esaustiva indicazione della disposizione
censurata, ricavabile dall’art. 23, primo e terzo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla
costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), impone di identificare il thema decidendum
tenendo conto della motivazione e dell’intero contesto dell’ordinanza di rimessione (sentenze n. 258 del
2012 e n. 181 del 2011)» (sentenza n. 12 del 2023).
Deve perciò ritenersi che le questioni sollevate dalla Corte d’appello di Firenze rimettente interroghino
questa Corte sulla legittimità costituzionale della disciplina legislativa in forza della quale la mancata
presentazione dell’istanza di accelerazione davanti alla Corte di cassazione, di cui all’art. 1-ter, comma 6,
della legge n. 89 del 2001, comporta la inammissibilità, ai sensi dell’art. 2, comma 1, della medesima legge,
della domanda di equa riparazione.
6.– Così precisato l’oggetto dell’odierno giudizio, le questioni sono fondate, in riferimento agli artt. 111,
secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6, paragrafo 1, e 13 CEDU.
7.– In sintonia con la giurisprudenza della Corte EDU, la giurisprudenza costituzionale è ormai costante
nell’affermare che i rimedi preventivi sono non solo ammissibili, eventualmente in combinazione con quelli
indennitari, ma addirittura preferibili, in quanto volti a evitare che i procedimenti giudiziari si protraggano
eccessivamente nel tempo (sentenze n. 107 del 2023, n. 175 del 2021 e n. 88 del 2018). Occorre, tuttavia,
che ne consegua un rimedio effettivo, ciò che accade soltanto laddove venga realmente resa più sollecita la
decisione da parte del giudice competente (in tal senso, di recente, Corte europea dei diritti dell’uomo,
quinta sezione, sentenza 30 aprile 2020, Keaney contro Irlanda, e prima sezione, sentenza 28 aprile 2022,
Verrascina ed altri contro Italia).
In applicazione di tali principi, si è così affermato che non rientra nel catalogo dei rimedi preventivi
effettivi l’imposizione di adempimenti che costituiscano espressione di «una mera facoltà del ricorrente […]
con effetto puramente dichiarativo di un interesse già incardinato nel processo e di mera “prenotazione della
decisione” (che può comunque intervenire oltre il termine di ragionevole durata del correlativo grado di
giudizio)» (sentenza n. 34 del 2019). Adempimenti di tal genere, infatti, non avrebbero «efficacia
effettivamente acceleratoria del processo» (sentenza n. 169 del 2019).
Con particolare riferimento all’istanza di accelerazione introdotta come rimedio preventivo nell’ambito
del processo penale dall’art. 1-ter, comma 2, della legge n. 89 del 2001, questa Corte ha affermato che la sua
presentazione «non offre alcuna garanzia di contrazione dei tempi processuali, non innesta un modello
procedimentale alternativo e non costituisce perciò uno strumento a disposizione della parte interessata per
prevenire l’ulteriore protrarsi del processo, né implica una priorità nella trattazione del giudizio» (sentenza
n. 175 del 2021).
Le medesime considerazioni possono essere replicate in relazione all’istanza di accelerazione da
depositare nel giudizio davanti alla Corte di cassazione ai sensi delle disposizioni oggetto dell’odierno
scrutinio.
Alla luce della vigente disciplina processuale, infatti, la sua presentazione non vincola il giudice «a
quanto richiestogli» (sentenza n. 88 del 2018), ossia ad instradare su un binario preferenziale il processo nel
quale l’istanza di accelerazione è depositata nei termini prescritti. In altre parole, nulla esclude che il
processo, «pur a fronte di una siffatta istanza, [possa] comunque proseguire e protrarsi oltre il termine di sua
ragionevole durata» (sentenza n. 169 del 2019), in violazione anche dell’art. 111, secondo comma, Cost.
A differenza dei casi scrutinati dalle sentenze n. 107 del 2023 e n. 121 del 2020, con riferimento ai
rimedi preventivi introdotti dai commi 1 e 3 dell’art. 1-ter della legge n. 208 del 2015, il deposito
dell’istanza in esame non si risolve nella «proposizione di possibili, e concreti, “modelli procedimentali
alternativi”, volti ad accelerare il corso del processo, prima che il termine di durata massima sia maturato»
(sentenza n. 121 del 2020).
La disciplina processuale del giudizio davanti alla Corte di cassazione, infatti, non ricollega al deposito
dell’istanza di accelerazione in esame alcun effetto significativo sui tempi del procedimento, dal momento
che il legislatore non ha previsto, come conseguenza della presentazione di essa, l’attivazione, fosse pure
mediata dalla valutazione del giudice, di un diverso – e, in tesi, più celere – modulo procedimentale per
addivenire alla decisione della causa.
La possibilità di offrire alle parti un diverso, e più sollecito, modello procedimentale non è certo
agevolata dalle peculiarità del giudizio di legittimità, caratterizzato dalla mancanza di una fase istruttoria e dalla circostanza che la causa viene discussa – per essere decisa nella stessa seduta – in un’unica udienza o
adunanza, a seconda che trovi applicazione il procedimento in pubblica udienza oppure quello in camera di consiglio.
Tuttavia, tali caratteristiche non impediscono, in assoluto, di introdurre semplificazioni procedurali che
incidano, riducendoli, sui tempi del processo.
A tale proposito, va segnalato che l’art. 3, comma 28, lettera g), del decreto legislativo 10 ottobre 2022,
n. 149 (Attuazione della legge 26 novembre 2021, n. 206, recante delega al Governo per l’efficienza del
processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie
nonché in materia di esecuzione forzata), ha introdotto – con il nuovo art. 380-bis del codice di procedura
civile, inapplicabile ratione temporis nel giudizio a quo – un rito accelerato anche nell’ambito del giudizio
davanti alla Corte di cassazione.
Ciò che conta sottolineare in questa sede, tuttavia, è che il legislatore della riforma – pur intervenuto,
sotto altri profili, sul testo dell’art. 1-ter della legge n. 89 del 2001 – non ha inteso instaurare alcun
collegamento diretto tra l’istanza disciplinata dalle disposizioni censurate e il suddetto rito accelerato.
7.1.– In ogni caso, il deposito dell’istanza di accelerazione in parola, in tempo utile ad evitare il
superamento dei termini di ragionevole durata del processo, costituisce manifestazione della volontà di
ottenere una decisione rapida.
La mancata presentazione di tale istanza, quindi, «può eventualmente assumere rilievo (come indice di
sopravvenuta carenza o non serietà dell’interesse al processo del richiedente) ai fini della determinazione del
quantum dell’indennizzo ex lege n. 89 del 2001» (sentenza n. 169 del 2019).
Quel che, invece, non risulta conforme ai parametri costituzionali evocati è che l’omesso deposito
dell’istanza possa condizionare la stessa ammissibilità della domanda di equa riparazione (in senso analogo, sentenza n. 175 del 2021).
8.– Va pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, della legge n. 89 del 2001,
nella parte in cui prevede l’inammissibilità della domanda di equa riparazione nel caso di mancato
esperimento del rimedio preventivo di cui all’art. 1-ter, comma 6, della medesima legge.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione
di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375
del codice di procedura civile), nella parte in cui prevede l’inammissibilità della domanda di equa
riparazione nel caso di mancato esperimento del rimedio preventivo di cui all’art. 1-ter, comma 6, della
medesima legge.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 giugno 2023.
F.to:
Silvana SCIARRA, Presidente
Nicolò ZANON, Redattore
Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
Depositata in Cancelleria il 13 luglio 2023
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto Milana
Le sentenze e le ordinanze della Corte costituzionale sono pubblicate nella prima serie speciale della Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana (a norma degli artt. 3 della legge 11 dicembre 1984, n. 839 e 21 del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 1985, n. 1092) e nella Raccolta Ufficiale delle sentenze e ordinanze della Corte costituzionale (a norma dell’art. 29 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, approvate dalla Corte costituzionale il 16 marzo 1956).
Il testo pubblicato nella Gazzetta Ufficiale fa interamente fede e prevale in caso di divergenza

185 bis c.p.c., transazione, conciliazione e Legge Pinto

L’estinzione del giudizio per accordo tra le parti non fa venir meno i presupposti della legge Pinto.

L’articolo 185-bis del Codice di Procedura Civile (c.p.c.) ha introdotto uno strumento di conciliazione che può essere utilizzato in vari contesti giuridici. Questo strumento è applicabile sia nei giudizi ordinari che riguardano diritti disponibili, sia nei procedimenti cautelari, e anche nei procedimenti sommari come previsto dall’articolo 702-bis.

La formulazione della proposta conciliativa da parte del giudice non è rigidamente definita dalla normativa, lasciando quindi spazio a un approccio flessibile e atipico. Interessante notare che la legge non richiede che tali proposte siano motivate, poiché la motivazione è generalmente associata alla possibilità di impugnazione dei provvedimenti giurisdizionali. In questo contesto, dato che la proposta conciliativa mira a concludere la lite, non sussiste generalmente un interesse delle parti all’impugnazione, a meno che non si tratti di questioni relative a diritti indisponibili.

Inoltre, per quanto riguarda le proposte formulate ai sensi dell’art. 185-bis c.p.c., è importante considerare la loro natura trilaterale, con il giudice che funge da facilitatore e ratificatore dell’accordo in caso di successo.

Il processo di conciliazione può essere formalizzato attraverso un’ordinanza che stabilisce un’udienza specifica per la conciliazione, oppure può essere proposto oralmente dal giudice durante un’udienza e registrato nel verbale. La ratifica dell’accordo nel verbale di udienza lo rende un titolo esecutivo ai sensi dell’art. 474 c.p.c.

Una volta raggiunto l’accordo, le possibili conseguenze processuali includono la pronuncia di estinzione del giudizio, come nel caso di rinuncia agli atti da parte delle parti (art. 306 c.p.c.) o l’abbandono della causa, che porta a un’ordinanza di cancellazione ex art. 309 c.p.c. La normativa distingue due tipologie di proposte che il giudice può formulare, offrendo così un quadro flessibile per la risoluzione delle controversie: una proposta conciliativa e una transattiva.

La proposta transattiva, basata sull’articolo 1965 del Codice Civile, è di natura contrattuale e implica concessioni reciproche tra le parti per risolvere una controversia già in corso. La proposta conciliativa, invece, può variare notevolmente nei contenuti, come una rinuncia o un riconoscimento formalizzato in un verbale, e può andare oltre le richieste specifiche delle parti, mirando a soddisfare gli interessi in gioco.

La proposta transattiva ha origini negoziali e, una volta raggiunto l’accordo, può portare a un provvedimento giudiziario che conclude il processo. È fondamentale che il giudice instauri un rapporto di fiducia con le parti e faciliti un dialogo costruttivo per risolvere il conflitto. Il successo della proposta dipende dalla capacità del giudice di adattare la proposta alle specificità del caso; proposte troppo ampie tendono a fallire.

La sensibilità del giudice, inclusa la capacità di comprendere le dinamiche psicologiche dei contendenti, è cruciale. Il giudice deve assumere un ruolo di mediatore, non solo formalmente ma anche empaticamente, per guidare le parti verso una soluzione condivisa. La proposta conciliativa non deve essere vista come una sentenza preliminare, ma piuttosto come un mezzo per raggiungere un accordo vantaggioso per entrambe le parti, soprattutto in termini di riduzione dei tempi processuali.

L’obiettivo principale di questo strumento è aiutare le parti a raggiungere un accordo negoziale per una risoluzione pacifica del conflitto. A tal fine sarà necessaria la piena collaborazione degli avvocati, aperti a possibili soluzioni prospettate dal Giudice.

Inoltre, per alcuni studiosi, anche se la proposta conciliativa non porta alla risoluzione del caso, può comunque escludere la possibilità per le parti che l’hanno rifiutata di richiedere un indennizzo secondo la legge Pinto (legge n. 89/2001), nel caso in cui il processo superi il termine di durata ragionevole. Infatti, il rifiuto di una proposta “ragionevole” potrebbe essere apprezzata dal Giudice nominato nel procedimento ex L. Pinto come causativa del protrarsi del processo, o peggio, come mera strategia processuale per non addivenire ad un giudicato.

Ulteriormente, già acquisita alla giurisprudenza della Corte di Cassazione, l’interpretazione secondo cui, in tema di equa riparazione ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89, l’esistenza di un danno non patrimoniale può essere esclusa nelle ipotesi in cui il protrarsi del giudizio appaia rispondente ad uno specifico interesse della
parte, il che appunto avviene, ad esempio, quando la lite sia stata gestita fuori del processo, conclusosi con l’estinzione per inattività delle parti a seguito di transazione stragiudiziale, lì dove l’interesse delle parti sia stato quello alla perdurante pendenza del giudizio per coltivare la prospettiva della definizione in sede stragiudiziale (Cass. Sez. 1, 13/04/2006, n. 8716; Cass. Sez. 1, 11/03/2005, n. 5398).
(cfr. Civile Sent. Sez. 2 Num. 13366 Anno 2022 – pubb 28/04/2022)

Questo orientamento può essere ad ogni modo controbilanciato dall’evidenza per cui l’articolo 2, comma 2 sexies, lettera c, della legge numero 89 del 2001, presenta – dalla semplice lettura – un ambito di applicazione limitato.

Ed, invero dalla lettura di alcuni ricorsi ritenuti, inammissibili e/o non accolti, quello che può “aver giocato a sfavorevolmente”, oltre una visione dell’organo giudicante, potenzialmente “severa” del dato normativo, può essere stata la non puntuale valorizzazione in sede di redazione del ricorso ex L. Pinto, dell’iter del processo presupposto, ad esempio rispetto ad una intensa attività (transattiva) extraprocessuale, in ragione del quale il Giudice di merito ha potuto realizzato il legittimo convincimento, per “presunzioni semplici”, di trovarsi dinanzi o ad una strategia processuale dei procuratori tesa a protrarre oltre ragionevolezza i termini di definizione del giudizio o, peggio, un disinteresse alla coltivazione del processo, poi definitosi per “stanchezza” delle parti ed abbandono.

Quello che appare certo è che il dato legislativo – art. 2, comma 2-sexies, lettera c), della legge n. 89 del 2001 – stabilisce una presunzione legale di non esistenza di pregiudizio causato dalla durata irragionevole di un processo – in SOLI due casi specifici: primo, quando un processo si conclude per rinuncia secondo l’articolo 306 del codice di procedura civile; secondo, quando si estingue per inattività delle parti, come previsto dall’articolo 307 dello stesso codice.

È importante, quindi, sottolineare che non vi è alcun riferimento all’ipotesi contemplata dall’articolo 309 del codice di procedura civile. Così come parimenti non vi possa essere alcun tipo di preclusione in ordine ad una conciliazione o transazione intervenuta ai sensi dell’art 309 bis c.p.c. Quest’ultimo articolo riguarda una situazione completamente diversa, ovvero l’estinzione improvvisa di un processo a causa della mancata presenza delle parti in due udienze consecutive. Questa estinzione, resa definitiva dalla modifica apportata al primo comma dell’articolo 181 del codice di procedura civile dal Decreto Legge numero 112 del 25 giugno 2008, comporta la rimozione della causa dall’elenco delle udienze.

Pertanto, l’articolo 309 del codice di procedura civile descrive un caso di estinzione immediata del processo, che non può essere considerato equivalente, ai fini dell’applicazione della cosiddetta “Legge Pinto” (legge per il risarcimento del danno da irragionevole durata dei processi), alle situazioni previste dagli articoli 306 e 307. La particolarità dell’estinzione ai sensi dell’articolo 309 risiede nel fatto che essa è legata esclusivamente alla mancata partecipazione delle parti a due udienze consecutive, indipendentemente dalla volontarietà dell’assenza o dall’omissione di specifici adempimenti richiesti dall’articolo 307.

Ulteriormente, l’Ordinanza n. 10336 del 2020, evidenzia quanto segue: “…la circostanza che le parti siano pervenute ad una conciliazione giudiziale (costituente la causa dell’estinzione del giudizio) dimostra in re ipsa che, fino al momento della conclusione di detta transazione, il contrasto tra le parti sussisteva e, dunque, sussisteva l’interesse delle stesse parti ad una pronuncia giudiziale su tale contrasto. Questa Corte ha, infatti, ripetutamente affermato che in materia di equa riparazione per durata irragionevole del processo, la dichiarazione di perenzione del giudizio, anche da parte del giudice amministrativo, non consente di ritenere insussistente il danno per disinteresse della parte a coltivare il processo, in quanto in tal modo verrebbe a darsi rilievo ad una circostanza sopravvenuta – la dichiarazione di estinzione del giudizio successiva rispetto al superamento del limite di durata ragionevole del processo. In definitiva, l’assunto della corte territoriale, che appare fare riferimento alla presunzione di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2 sexies, lett.c), che ritiene l’estinzione del giudizio, seppur determinata da conciliazione giudiziale, causa del disinteresse delle parti, risulta apodittico, là dove omette di motivare in punto di permanenza dell’interesse delle parti ad una pronuncia giudiziale sul loro contrasto fino al momento in cui esse si risolsero a comporre tale lite in via transattiva”.

Per converso alcuni provvedimenti della Corte di Cassazione (cfr. Civile Sent. Sez. 2 Num. 13366 Anno 2022) riportano il principio per cui, “proprio perché l’art. 2, comma 2-sexies, della legge n. 89 del 2001, introdotto dalla legge n. 208 del 2015, contempla un elenco di presunzioni iuris tantum di insussistenza del pregiudizio da irragionevole durata del processo, le ipotesi presentate nel ricorso costituiscono prova “completa”, alla quale il giudice di merito può legittimamente ricorrere, anche in via esclusiva, salvo pur sempre il limite della motivazione del proprio convincimento, nonché quello dell’esame degli eventuali elementi indiziari contrari al fatto ignoto dell’inesistenza del pregiudizio da irragionevole durata del processo, che si pretende legislativamente di desumere tramite l’allestita presunzione. L’accertamento dell’esistenza, sufficienza e rilevanza della prova contraria, che consenta il superamento delle presunzioni di insussistenza del pregiudizio da irragionevole durata del processo, di cui all’art. 2, comma 2- sexies, implica una tipica indagine di fatto, istituzionalmente attribuita dalla legge al giudice di merito, ma pur sempre sindacabile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360, comma
1, n. 5, c.p.c. (Cass. Sez. 2, 10/10/2019, n. 25542).”

In conclusione negli ultimi anni è possibile apprezzare una interpretazione più “severa” del dato normativo da parte delle Corti, soprattutto in presenza di Ricorsi ex L. Pinto ove non vengono valorizzate efficacemente le ragioni causative della lungaggine del processo, doverosa, a maggior ragione, in presenza di contenzioni definiti mediante conciliazioni e transazioni, in presenza delle quali non è assolutamente negato il diritto ma ove è necessaria una ancor più attenta valutazione di opportunità.

Legge Pinto l’erede ha diritto a conseguire, “pro quota” e “iure successionis”, l’indennizzo maturato dal “de cuius”

Massima estratta:

La Corte stabilisce che, in caso di decesso di una parte in un giudizio civile, l’erede ha il diritto di ricevere, in qualità di successore, una quota dell’indennizzo maturato dal defunto per l’eccessiva durata del processo. Inoltre, l’erede ha diritto a un indennizzo proprio per l’ulteriore protrazione del processo a partire dal momento in cui assume formalmente il ruolo di parte nel giudizio. Questo diritto all’indennizzo si basa sul principio che l’erede subentra in un processo già caratterizzato da una durata irragionevole, ma può richiedere un indennizzo per la sofferenza morale dovuta all’irragionevole durata del processo solo dopo la sua formale costituzione come parte, secondo quanto stabilito dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

EstrattoOrd. Sez. 6 Num. 29448 Anno 2019

Questa Corte ha più volte espresso l’orientamento, al quale il collegio intende dare continuità, secondo cui, qualora la parte del giudizio civile presupposto sia deceduta, l’erede ha diritto a conseguire, “pro quota” e “iure successionis”, l’indennizzo maturato dal “de cuius” per l’eccessiva protrazione del processo, nonchè, “iure proprio”, l’indennizzo dovuto in relazione all’ulteriore decorso della medesima procedura, dal momento in cui abbia assunto formalmente la qualità di parte, ovverosia si sia costituito nel giudizio. Ed infatti, anche se la qualificazione ordinamentale negativa del processo, ossia la sua irragionevole durata, è stata già acquisita nel segmento temporale nel quale parte era il “de cuius” e permane altresì in relazione alla valutazione della posizione del successore – che subentra, pertanto, in un processo oggettivamente irragionevole -, quest’ultimo ha diritto all’indennizzo “iure proprio” solo per l’irragionevole durata del giudizio successiva alla propria rituale costituzione, la quale – come confermato dalla CEDU, con sentenza del 18 giugno 2013, “Fazio ed altri c. Italia” – è condizione essenziale per far valere la sofferenza morale da ingiustificata durata del processo, atteso che, nel processo civile, in ipotesi di morte della parte originaria, stante la regolamentazione di tale evento prevista nell’art. 300 c.p.c., non assume altrimenti rilievo la continuità delle rispettive posizioni processuali tra dante ed aventi causa, prevista dall’art. 110 c.p.c., se non dal momento, appunto, dell’effettiva costituzione degli eredi conseguente al decesso del primo (cfr. Cass. Sez. 6 – 2, 08/02/2017, n. 3387; Cass. Sez. 6 – 2, 03/02/2017, n. 3001; Cass. Sez. 6 – 2, 24/01/2017, n. 1785; Cass. Sez. 6 – 2, 20/11/2014, n. 24771; Cass. Sez. 2, 19/02/2014, n. 4003; Cass. Sez. 1, 07/02/2008, n. 2983).

Legge Pinto: Perentorietà del Termine per la Notifica del Ricorso e del Decreto di Accoglimento

Premessa: La questione in esame riguarda l’interpretazione e l’applicazione dell’articolo 5 comma 2 della legge n. 89 del 2001, comunemente nota come “Legge Pinto”.

Primo Motivo di Ricorso: È stata sollevata una contestazione relativa alla violazione e alla presunta errata applicazione dell’articolo 5 comma 2 della legge n. 89 del 2001. In particolare, si contesta la non perentorietà del termine stabilito per la notifica del ricorso e del relativo decreto.

Secondo Motivo di Ricorso: È stata avanzata l’eccezione riguardo alla possibile incostituzionalità della norma, nel caso in cui il termine venga interpretato come perentorio. Tale eccezione si basa sulla presunta violazione degli articoli 24 e 111 della Costituzione Italiana, nonché in relazione all’articolo 112 del Codice di Procedura Civile, in merito alla non riproponibilità della domanda.

Decisione della Corte di Cassazione: Con la sentenza n. 2656 del 1 febbraio, la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso. Tuttavia, considerando la natura innovativa della questione di diritto concernente gli effetti della tardiva notifica del decreto, questione solo di recente affrontata dalla stessa Corte, ha deciso di compensare le spese legali sostenute nel corso del giudizio.

Considerazioni Finali: In base alla decisione dei Giudici di Legittimità, si sottolinea che il termine di trenta giorni previsto dal secondo comma dell’articolo 5 della legge n. 89 del 2001 è da considerarsi perentorio. Questa interpretazione trova fondamento nella novella legislativa del 2012, come ulteriormente chiarito dalla Corte con la sentenza n. 5656 del 2015. Tale novella ha introdotto nel sistema giuridico italiano un meccanismo analogo a quello del procedimento ingiuntivo, sebbene allo stesso non identico e quindi applicabile solo nei casi in cui la disciplina dello stesso sia estensibile.

Come notorio, altresì, il termine di notifica del decreto ingiuntivo è perentorio. Per cui alla sua scadenza il decreto ingiuntivo non è più utilizzabile e perde efficacia. Parimenti, abbiamo evidenziato il Decreto ex L. Pinto, sebbene con termini diversi. Orbene, diversamente dalla L. Pinto, il creditore, sempre che il suo diritto non si sia nel frattempo prescritto, può però sempre chiedere un nuovo decreto ingiuntivo. Viceversa nella L. Pinto se superati i 6 mesi o non notificato entro i 30 si perde tale diritto.

Secondo la Cassazione, Cass. sent. n. 22959/07, n. 5447/99, il termine di notifica del decreto ingiuntivo è soggetto alla sospensione feriale nel periodo che va dal 1° al 31 agosto. Questo significa, ad esempio, che se il decreto è stato depositato in cancelleria il 26 luglio, il termine di notifica del decreto ingiuntivo non scade il 25 settembre bensì il 25 ottobre (poiché tutto il mese di agosto non si calcola).

Quindi per alcuna giurisprudenza, parimenti estensibile anche la proroga dei termini feriali e festivi ex 155 cpc per la notifica del Decreto ex Legge Pinto, così come in aderenza con quanto previsto per il procedimento ingiuntivo.

Sul tema si riporta una massima estratta da Ordinanza n. 25739 del 30.10.2017 – Corte di Cassazione, Sezione Seconda Civile, commentata in calce al seguente articolo.

“in quanto fra i termini sospesi nel periodo feriale vanno ricompresi non solo i termini inerenti alle fasi successive all’introduzione del processo, ma anche il termine entro il quale il processo stesso deve essere instaurato quando l’azione in giudizio rappresenta l’unico rimedio per far valere il diritto – la sospensione si applica anche al termine previsto dall’articolo 4 della legge 89 per la proposizione della domanda (in tal senso, da ultimo, Cass. 4147/2017).”

Alcuni provvedimenti.

Cassazione civile sez. II, 01/10/2019, (ud. 14/02/2019, dep. 01/10/2019), n.24464
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. COSENTINO Antonello – rel. Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 14998-2017 proposto da:

L.D., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI GRACCHI

278, presso lo studio dell’avvocato CLAUDIA CANNIZZARO,

rappresentato e difeso dall’avvocato ANTONIO SANASI;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA;

– intimato –

avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di LECCE, depositato il

30/11/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

14/02/2019 dal Consigliere ANTONELLO COSENTINO.

Fatto

RAGIONI IN FATTO E IN DIRITTO DELLA DECISIONE

Rilevato:

che il signor L.D. ha proposto ricorso, sulla scorta di un unico motivo, per la cassazione del decreto con cui la corte d’appello di Lecce, accogliendo l’opposizione avanzata dal Ministero della giustizia ai sensi della L. n. 89 del 2001, art. 5-ter ha dichiarato inefficace – e, per l’effetto, revocato – il decreto emesso in suo favore ai sensi dell’art. 3 della stessa legge, dichiarando altresì improponibile la sua domanda di equa riparazione;

che la corte leccese ha motivato la propria decisione con riferimento al disposto della L. n. 89 del 2001, art. 5, comma 2, rilevando come, nella specie, il decreto monitorio fosse stato notificato oltre la scadenza del termine di trenta giorni previsto da detta disposizione;

che il Ministero della Giustizia non ha svolto difese in questa sede;

che la causa è stata chiamata all’adunanza in camera di consiglio del 14 febbraio 2019, per la quale non sono state presentate memorie;

considerato:

che l’unico motivo di ricorso è riferito al vizio di violazione o falsa applicazione di legge, con riferimento alla L. n. 89 del 2001, art. 5-ter e artt. 644 e 645 c.p.c.; all’art. 24 Cost. e art. 111 Cost., commi 1, 2, 6 e 7, artt. 6, 13 e 41 CEDU, 1 Protocollo CEDU e L. n. 89 del 2001, art. 2; all’art. 111 Cost., commi 6 e 7, artt. 112 e 132 c.p.c. e art. 118 disp. att. c.p.c., nonchè vizio di motivazione in relazione alla omessa decisione della causa nel merito;

che in sostanza il ricorrente sostiene, richiamando taluni precedenti di questa Corte, che, qualora il decreto emesso all’esito della fase monitoria del giudizio di equa riparazione sia stato notificato all’Amministrazione resistente, ancorchè con una notifica tardiva o invalida, il vizio o l’intempestività della notifica potrebbe esser fatto valere dall’Amministrazione solo con l’opposizione L. n. 89 del 2002, ex art. 5 ter la quale investirebbe la corte di appello non soltanto dell’accertamento della sopravvenuta inefficacia del decreto, ma anche del merito della domanda di equa riparazione;

che in proposito il Collegio ritiene, in primo luogo, di confermare il consolidato principio che, in tutti i casi in cui il decreto monitorio di cui alla L. n. 89 del 2002, art. 3, comma 4 sia stato notificato all’Amministrazione resistente, quest’ultima può far valere l’eventuale nullità della notifica o l’eventuale tardività della stessa (rispetto al termine perentorio di cui all’art. 5, comma 1, stessa legge) soltanto mediante la tempestiva opposizione L. n. 89 del 2001, ex art. 5 ter;

che, peraltro, nei suddetti casi l’oggetto del giudizio di opposizione è diverso a seconda che la notifica del decreto monitorio sia stata tempestiva, ancorchè nulla, o sia stata tardiva, ancorchè, eventualmente, valida;

che nel primo caso, infatti, la nullità della notifica – se vale ad impedire il decorso del termine di opposizione (giacchè il vizio della notifica impedisce di presumere che il decreto sia giunto a conoscenza dell’Amministrazione destinataria alla data della notifica stessa, legittimando quindi l’opposizione tardiva) – tuttavia non rende inefficace il decreto, perchè il fatto che il ricorrente abbia tempestivamente effettuato la notifica, ancorchè questa risulti affetta da vizi che ne determinino la nullità, vale ad escluderne l’inerzia;

che nel caso di notifica tempestiva nulla, quindi, l’oggetto del giudizio di opposizione si risolve nella stessa domanda di equa riparazione originariamente introdotta dal ricorrente, che l’Amministrazione ha l’onere di contestare nel merito;

che, per contro, nel caso della notifica tardiva (ancorchè valida), ricorre la situazione di inerzia del ricorrente cui la L. n. 89 del 2001, art. 5, comma 2, – sulla base di una presunzione assoluta di perdita di interesse alla procedura, analoga a quella sottesa al disposto dell’art. 644 c.p.c. – ricollega la perdita di efficacia del decreto monitorio;

che in tal caso l’oggetto del giudizio di opposizione si esaurisce nell’accertamento della inefficacia del decreto, per tardività della relativa notifica, e non investe il merito della domanda di equa riparazione originariamente proposta (che, quindi, l’Amministrazione non ha interesse a contestare) giacchè la L. n. 89 del 2001 (art. 5, comma 2, u.p.) prevede espressamente che la perdita di efficacia del decreto implica la non riproponibilità della domanda, in tal modo differenziando la disciplina del decreto L. n. 89 del 2002, ex art. 3 dalla disciplina del decreto ingiuntivo previsto dal codice di rito, nella quale, mancando un divieto di riproponibilità della domanda, l’eventuale inefficacia del decreto impone, comunque, per ragioni di economia processuale, l’esame nel merito della pretesa;

che, quindi, in definitiva, deve qui confermarsi l’orientamento della sentenza di questa Corte n. 2656/17 (già seguita da Cass. n. 10879/18), che ha affermato che la tardiva notifica del decreto L. n. 89 del 2001, ex art. 3 comporta, ai sensi dell’art. 5, comma 2, stessa legge, l’inefficacia del medesimo e l’improponibilità della domanda indennitaria, altresì giudicando manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale di tale disciplina, con argomentazioni che questo Collegio condivide e che valgono a dissipare anche i subbi di legittimità costituzionale sollevati dalla difesa del sig. L.;

che, in conclusione, il ricorso va rigettato;

che non vi è luogo a regolazione delle spese del giudizio di cassazione, non avendo l’intimato Ministero svolto attività difensiva;

che non si applica il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17 risultando dagli atti che il processo è esente dal pagamento del contributo unificato.

P.Q.M.

La corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 14 febbraio 2019.

Depositato in Cancelleria il 1 ottobre 2019


Commento alla Ordinanza N. 25739 del 30.10.2017 – Corte di Cassazione Sez. Seconda civile

Oggetto: Applicazione della sospensione feriale al termine di introduzione della domanda ai sensi della Legge Pinto.

Sentenza: La Corte di Cassazione, Sezione Seconda Civile, con l’Ordinanza n. 25739 del 30.10.2017, ha affrontato la questione relativa all’applicabilità della sospensione feriale ai termini previsti dalla Legge Pinto.

Parti Coinvolte: Il ricorso è stato proposto dal Ministero della Giustizia contro A. G. + altri.

Fatti Principali: La Corte d’Appello di Roma aveva rigettato l’opposizione del Ministero della Giustizia contro un decreto che lo condannava a pagare una somma come equa riparazione per la durata irragionevole di un processo. Il Ministero ha presentato ricorso contro tale decisione.

Questioni Sollevate:

Applicabilità della sospensione feriale al termine di decadenza previsto dall’articolo 4 della Legge 89/2001.
Carattere “monitorio” del procedimento ai sensi dell’articolo 3 della Legge 89 e sua compatibilità con la sospensione feriale.
Decisione della Corte di Cassazione: La Corte ha stabilito che la sospensione feriale si applica anche al termine previsto dall’articolo 4 della Legge 89. Questo perché non solo i termini successivi all’introduzione del processo sono sospesi durante il periodo feriale, ma anche il termine entro il quale il processo deve essere avviato, specialmente quando l’azione in giudizio è l’unico mezzo per far valere un diritto. Pertanto, il ricorso del Ministero è stato rigettato.

Conseguenze: Il Ministero della Giustizia è stato condannato a pagare le spese legali in favore dei controricorrenti.

Commento: La decisione della Corte di Cassazione ribadisce l’importanza di garantire i diritti dei cittadini, anche in presenza di termini procedurali. La sospensione feriale, tradizionalmente applicata ai termini processuali, viene estesa anche ai termini sostanziali quando l’azione in giudizio rappresenta l’unico rimedio per far valere un diritto.

Corte di Cassazione Sez. Seconda civile Ordinanza N. 25739 del 30.10.2017
Civile Ord. Sez. 2 Num. 25739 Anno 2017
Presidente: PETITTI STEFANO
Relatore: BESSO MARCHEIS CHIARA
Data pubblicazione: 30/10/2017

ORDINANZA
sul ricorso 20046-2016 proposto da:
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA (8018440587), in persona del Ministro pro tempore, domiciliato ex lege in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

  • ricorrente –
    contro
    A. G. + altri, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA SESTO RUFO 23, presso lo studio dell’avvocato BRUNO TAVERNITI, rappresentati e difesi dall’avvocato GIUSEPPE MARROCCO;
  • controricorrentí –
    avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositato il 15/06/2016, Cron.n. 4854/2016, R.G.V.G. n. 53011/2015;
    udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 07/07/2017 dal Consigliere Dott. CHIARA BESSO MARCHEIS.

Svolgimento del processo

La Corte d’Appello di Roma, con decreto del 15 giugno 2016, ha rigettato l’opposizione proposta dal Ministero della Giustizia contro il decreto con il quale era stato condannato a pagare in favore di ciascuno degli odierni controricorrenti la somma di euro 2.000 a titolo di equa riparazione per la durata irragionevole di un processo da essi iniziato davanti al Tribunale di Napoli.
Contro tale decreto il Ministero propone ricorso, articolato in due motivi.

Resistono con controricorso G. A., M. G. C., F. C., R. C., E. C., A. C.
Il ricorrente ha depositato memoria. La memoria, per la parte in cui pone in essere una integrazione del ricorso con due nuovi motivi
“esplicativi dei motivi a suo tempo proposti”, è inammissibile.
I controricorrenti hanno anch’essi depositato memoria, ma una volta decorso il termine prescritto dall’art. 380-bis 1 c.p.c.

Motivazione

Col primo motivo di ricorso il Ministero della Giustizia lamenta la violazione o falsa applicazione dell’articolo 4 della legge 89/2001, in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., per avere la Corte d’appello ritenuto applicabile al termine di decadenza, di natura sostanziale ad
avviso del ricorrente, ex articolo 4 della citata legge la sospensione dei termini nel periodo feriale. Richiamata la pronuncia delle sezioni
unite di questa Corte n.16783/2012 che ha escluso il decorso del impedito dal termine di decadenza di cui all’articolo 4, il ricorrente
afferma che da tale premessa discende, sul piano logico-sistematico, l’inapplicabilità di un istituto come la sospensione dei termini nel
periodo feriale, che è proprio dei termini processuali.

Il secondo motivo denuncia, anch’esso, la violazione o falsa applicazione del medesimo articolo 4, ma in relazione all’articolo 360, n. 4 c.p.c.: si sostiene che il carattere “monitorio” del procedimento, che non introduce un giudizio contenzioso ma solo una fase sommaria, previsto dal nuovo articolo 3 della legge 89, non si concilierebbe, per le sue caratteristiche di speditezza e urgenza, con la sospensione feriale dei termini processuali.

Entrambi i motivi, da esaminare congiuntamente, sono manifestamente infondati. Essi si contrappongono, senza alcun valido argomento, all’indirizzo ormai consolidato di questa Corte in base al quale – in quanto fra i termini sospesi nel periodo feriale vanno ricompresi non solo i termini inerenti alle fasi successive all’introduzione del processo, ma anche il termine entro il quale il processo stesso deve essere instaurato quando l’azione in giudizio rappresenta l’unico rimedio per far valere il diritto – la sospensione si applica anche al termine previsto dall’articolo 4 della legge 89 per la proposizione della domanda (in tal senso, da ultimo, Cass. 4147/2017).
Il ricorso va pertanto rigettato.
La liquidazione delle spese, effettuata nel dispositivo, segue la soccombenza.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente Ministero della giustizia al pagamento delle spese del giudizio in favore dei controricorrenti che liquida in euro 800 per compensi, di cui euro 200 per esborsi, oltre spese generali (15%) e accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella adunanza camerale della sezione seconda civile, in data 7 luglio 2017.
Pubblicata il 30.10.2017

Ordinanza della Corte di Cassazione n. 1/2023: un’analisi approfondita sulla notifica del decreto di accoglimento

L’Ordinanza della Corte di Cassazione n. 1/2023, pubblicata il 2 gennaio 2023, rappresenta un punto di svolta nell’interpretazione di importanti questioni legali. In questo articolo, esamineremo attentamente il contenuto di questa Ordinanza e approfondiremo particolarmente la tematica della notifica del decreto di accoglimento.

La questione della notifica del decreto di accoglimento

Uno degli aspetti centrali di questa Ordinanza riguarda la notifica del decreto di accoglimento. In molti casi, questo rappresenta un punto critico per il diritto processuale, dato che la notifica corretta e tempestiva del decreto è essenziale per garantire il diritto di difesa e la certezza del diritto. L’ordinanza n. 1/2023 ha ulteriormente definito la procedura corretta per la notifica del decreto di accoglimento, fornendo importanti linee guida per praticanti e avvocati.

Il contesto: la Legge Pinto

Per comprendere a fondo l’importanza di questa Ordinanza, è utile far riferimento alla cosiddetta Legge Pinto, che riguarda la risarcibilità della violazione del “termine ragionevole” del processo (Legge 89/2001). Questa legge ha introdotto importanti cambiamenti nel sistema giudiziario italiano, in particolare per quanto riguarda i tempi di conclusione dei processi. L’Ordinanza n. 1/2023 è particolarmente significativa in questo contesto, poiché ha contribuito a chiarire ulteriormente le procedure e le regole che riguardano la notifica del decreto di accoglimento.

Implicazioni pratiche

Le implicazioni pratiche dell’Ordinanza n. 1/2023 sono molteplici. In primo luogo, ha portato ad un maggiore rigore nella procedura di notifica del decreto di accoglimento, richiedendo che tale procedura sia rispettata in maniera scrupolosa per garantire il corretto svolgimento del processo. Questo ha conseguenze non solo per gli avvocati e i professionisti del diritto, ma anche per i cittadini che sono coinvolti in procedimenti legali.

In secondo luogo, l’Ordinanza ha contribuito a fare chiarezza su alcune questioni chiave relative alla Legge Pinto, offrendo una guida chiara su come gestire i casi in cui si invoca la violazione del “termine ragionevole” del processo. Questo ha avuto un impatto significativo sulla prassi giudiziaria e ha contribuito a ridurre l’incertezza legale in questi casi.

Conclusione

L’Ordinanza della Corte di Cassazione n. 1/2023 ha quindi segnato un importante progresso nell’interpretazione e nell’applicazione del dir

itto processuale italiano. In particolare, ha fornito una guida preziosa sulla notifica del decreto di accoglimento, contribuendo a garantire che questo aspetto fondamentale del processo legale sia gestito correttamente.

Nonostante queste chiare linee guida, tuttavia, restano molte sfide e questioni complesse in questo campo. Per affrontare queste questioni, è essenziale poter contare su un team legale esperto e competente.

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Rimedi preventivi – rito del lavoro

Corte di Cassazione – Civile Ord. Sez. 2 Num. 16741 Anno 2022

“In tema di equa riparazione, l’art. 1 ter, comma 1, della l. n. 89 del 2001 deve interpretarsi – anche in ossequio al canone che impone di attribuire alla legge, nei limiti in cui ciò sia permesso dal
suo testo, un significato conforme alla CEDU – nel senso che non rientrano nel perimetro di applicazione della norma i processi che si svolgono con il rito lavoro in quanto a seguito della modifica
dell’art. 429, comma 1, c.p.c. disposta dall’art. 53, comma 2, del d.l. n. 112 del 2008, conv., con modif., dalla l. n. 133 del 2008 – applicabile ai giudizi instaurati dopo la entrata in vigore della legge
– è già previsto che il giudice all’udienza di discussione decida la causa e proceda alla lettura del dispositivo e delle ragioni in fatto e diritto della decisione, in analogia con lo schema dell’art. 281
sexies c.p.c..”

Legge Pinto: incostituzionale l’obbligo di presentazione dell’istanza di accelerazione del processo penale

La Corte costituzionale con la sentenza del 30 luglio 2021 n. 175 ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 2, comma 1, in relazione all’art. 1-ter, comma 2, della L. 24 marzo 2001, n. 89, che subordina il riconoscimento del diritto ad una equa riparazione all’esperimento del rimedio preventivo consistente nel depositare un’istanza di accelerazione almeno sei mesi prima che siano trascorsi i termini ragionevoli previsti dall’art. 2, comma 2-bis.

Corte costituzionale
Sentenza 30 luglio 2021, n. 175
Presidente: Coraggio – Redattore: Petitti
[…] nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1-bis, comma 2, e 2, comma 1, in relazione agli artt. 1-ter, comma 2, e 6, comma 2-bis, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), nel testo risultante dalle modifiche apportate dall’art. 1, comma 777, lettere a), b) e m), della legge 28 dicembre 2015, n. 208, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)», promosso dal Corte d’appello di Napoli nel procedimento vertente tra S. A. e il Ministero della giustizia, con ordinanza dell’11 marzo 2020, iscritta al n. 173 del registro ordinanze 2020 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 50, prima serie speciale, dell’anno 2020.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 23 giugno 2021 il Giudice relatore Stefano Petitti;

deliberato nella camera di consiglio del 24 giugno 2021.

RITENUTO IN FATTO

1.- La Corte d’appello di Napoli, con ordinanza dell’11 marzo 2020, iscritta al n. 173 del registro ordinanze 2020, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1-bis, comma 2, in relazione agli artt. 1-ter, comma 2, e 6, comma 2-bis, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), nel testo risultante dalle modifiche apportate dall’art. 1, comma 777, lettere a) e m), della legge 28 dicembre 2015, n. 208, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)», «nella parte in cui subordina il riconoscimento del diritto ad una equa riparazione in favore di chi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale a causa dell’irragionevole durata di un processo penale la cui durata al 31 ottobre 2016 non ecceda i termini ragionevoli previsti dall’art. 2, comma 2-bis, e che non sia stato ancora assunto in decisione alla stessa data, all’esperimento del rimedio preventivo consistente nel depositare, personalmente o a mezzo di procuratore speciale, un’istanza di accelerazione almeno sei mesi prima che siano trascorsi i detti termini».

Con la medesima ordinanza, la Corte d’appello di Napoli ha altresì censurato l’art. 2, comma 1, in relazione agli artt. 1-ter, comma 2, e 6, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001, nel testo risultante dalle modifiche apportate dall’art. 1, comma 777, lettere a), b) e m), della legge n. 208 del 2015, «nella parte in cui, con riferimento ai processi penali la cui durata al 31 ottobre 2016 non ecceda i termini ragionevoli previsti dall’art. 2, comma 2-bis, e a quelli non ancora assunti in decisione alla stessa data, sancisce l’inammissibilità della domanda di equa riparazione proposta dal soggetto che non ha esperito il rimedio preventivo consistente nel depositare, personalmente o a mezzo di procuratore speciale, un’istanza di accelerazione almeno sei mesi prima che siano trascorsi i detti termini».

2.- Il giudice a quo premette che il ricorrente S. A. ha proposto in data 6 febbraio 2020 domanda di equa riparazione, ai sensi della legge n. 89 del 2001, per l’eccessiva durata di un processo penale a suo carico tuttora pendente in grado d’appello, nel quale è attualmente maturato un ritardo tale da legittimare la proposizione della domanda e che, tuttavia, al 31 ottobre 2016 non eccedeva i termini ragionevoli stabiliti dall’art. 2, comma 2-bis, della medesima legge. In tale processo non risulta presentata dall’imputato l’istanza di accelerazione prevista come rimedio preventivo dall’art. 1-ter, comma 2, della stessa legge n. 89 del 2001, aggiunto dall’art. 1, comma 777, lettera a), della legge n. 208 del 2015, in vigore dal 1° gennaio 2016. La mancata presentazione dell’istanza di accelerazione, avverte il giudice a quo, condurrebbe al diniego del diritto all’indennizzo e alla declaratoria di inammissibilità dell’istanza, in virtù di quanto disposto dagli artt. 1-bis, comma 2, 2, comma 1, e 6, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001, come rispettivamente introdotti e sostituiti dall’art. 1, comma 777, lettere a) e b), della legge n. 208 del 2015.

3.- La Corte d’appello di Napoli dubita della legittimità costituzionale delle richiamate disposizioni per contrasto con l’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione agli artt. 6, paragrafo 1, e 13 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.

4.- In punto di rilevanza della questione, l’ordinanza di rimessione espone che il giudizio penale presupposto, tuttora pendente in grado di appello, aveva raggiunto, al momento della proposizione della domanda di equa riparazione, la durata di cinque anni, dieci mesi e dodici giorni, complessivamente superiore, pertanto, al termine ragionevole di cinque anni previsto dall’art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001.

Negata la possibilità di ravvisare, nella fattispecie in esame, alcuna delle ipotesi di esclusione del diritto all’indennizzo o di presunta insussistenza del pregiudizio da irragionevole durata del processo contemplate dall’art. 2, commi 2-quinquies, 2-sexies e 2-septies, della legge n. 89 del 2001, il giudice a quo evidenzia che il ricorrente non aveva depositato l’istanza di accelerazione di cui al comma 2 dell’art. 1-ter della legge n. 89 del 2001, sebbene al 31 ottobre 2016 la durata del processo penale presupposto non avesse ancora ecceduto i termini di durata ragionevole. L’interessato, infatti, aveva acquisito conoscenza dello stesso processo in forza della notificazione del decreto penale di condanna del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Torre Annunziata avvenuta il 21 ottobre 2013; il 12 settembre 2016 era poi stata depositata dal medesimo Tribunale la sentenza di condanna e il 16 settembre era stato depositato dal difensore dell’imputato l’atto di appello, ancora pendente al momento della proposizione della domanda di equa riparazione. Non trova perciò applicazione la norma transitoria contenuta nell’art. 6, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001, che esclude l’operatività del precedente art. 2, comma 1, nei processi la cui durata eccedesse già al 31 ottobre 2016 i termini ragionevoli di cui all’art. 2, comma 2-bis, e in quelli assunti in decisione alla stessa data. La Corte d’appello di Napoli spiega così che il giudizio di equa riparazione deve essere definito facendo applicazione degli artt. 1-bis, comma 2, e 2, comma 1, della legge n. 89 del 2001, in combinato disposto con gli artt. 1-ter, comma 2, e 6, comma 2-bis, della stessa legge, arrivando, in forza delle disposizioni di cui è denunciata l’illegittimità costituzionale, a negare il diritto all’indennizzo ed a dichiarare inammissibile la domanda proposta.

5.- A sostegno della non manifesta infondatezza della questione, l’ordinanza di rimessione richiama la sentenza n. 169 del 2019 di questa Corte, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 2, comma 2-quinquies, lettera e), della legge n. 89 del 2001, nel testo introdotto dall’art. 55, comma 1, lettera a), numero 2, del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 134. Tale norma analogamente negava il diritto all’equa riparazione in favore dell’imputato che non avesse «depositato istanza di accelerazione del processo penale nei trenta giorni successivi al superamento dei termini di cui all’art. 2-bis». Viene del pari richiamata la sentenza costituzionale n. 34 del 2019, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 54, comma 2, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, nella legge 6 agosto 2008, n. 133, come modificato dall’art. 3, comma 23, dell’Allegato 4 al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo) e dall’art. 1, comma 3, lettera a), numero 6, del decreto legislativo 15 novembre 2011, n. 195 (Disposizioni correttive ed integrative al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, recante codice del processo amministrativo a norma dell’articolo 44, comma 4, della legge 18 giugno 2009, n. 69). La Corte d’appello di Napoli rievoca altresì la costante giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in tema di necessaria effettività dei rimedi preventivi, volti ad evitare l’eccessiva durata del procedimento. Ad avviso del giudice a quo, gli artt. 1-bis, comma 2, e 2, comma 1, della legge n. 89 del 2001, entrambi in relazione all’art. 1-ter, comma 2, della stessa legge, parimenti contrasterebbero con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 6, paragrafo 1, e 13 CEDU, atteso che, al deposito dell’istanza di accelerazione, ad opera dell’imputato o di una delle altre parti del giudizio penale, non corrisponderebbe alcuna effettiva diversa considerazione della vicenda processuale, tale da assicurarne, almeno tendenzialmente, la definizione entro il termine ragionevole. Piuttosto, le norme censurate imporrebbero un inutile adempimento formale, con l’effetto di mera «prenotazione della decisione» (la quale può comunque intervenire oltre il termine di ragionevole durata del correlativo grado di giudizio) e di pura e semplice manifestazione di un interesse già altrimenti presente nel processo e avente copertura costituzionale.

In sostanza, osserva la Corte d’appello di Napoli, l’istanza di accelerazione del processo penale continuerebbe a non rappresentare un rimedio preventivo effettivamente sollecitatorio, nei termini precisati dalla giurisprudenza della Corte EDU e dalle sentenze di questa Corte, tanto più ove si consideri che, a mente dell’art. 1-ter, comma 7, della legge n. 89 del 2001, anche in caso di esperimento dei rimedi contemplati dallo stesso articolo, «restano ferme le disposizioni che determinano l’ordine di priorità nella trattazione dei procedimenti».

È pur vero, aggiunge l’ordinanza di rimessione, che l’art. 1-ter, comma 2, della legge n. 89 del 2001, disponendo che l’istanza di accelerazione venga presentata dall’imputato e dalle altre parti del processo penale con anticipo di almeno sei mesi rispetto alla scadenza dei termini fissati dall’art. 2, comma 2-bis, pone a carico degli stessi un onere di diligenza più incisivo di quello prescritto (peraltro nei confronti del solo imputato) dalla previgente previsione di cui all’art. 2, comma 2-quinquies, lettera e), della medesima legge, in base alla quale, invece, il deposito di tale istanza doveva essere effettuato nei trenta giorni successivi al superamento dei predetti termini. Ciò, tuttavia, non comporta che il rimedio in esame, seppur attualmente prefigurato come «preventivo», possa essere altresì ritenuto «effettivo», ai sensi dell’art. 13 CEDU, in quanto, anche a seguito della novella introdotta dalla legge n. 208 del 2015, il sistema giuridico nazionale continua a non prevedere alcuna condizione volta a garantire il sollecito esame e il positivo riscontro dell’istanza di accelerazione, né tantomeno a predisporre idonee misure finalizzate a velocizzare la decisione da parte del giudice al quale una siffatta istanza sia stata tempestivamente rivolta.

Da ultimo, il giudice a quo esclude la possibilità di una interpretazione convenzionalmente orientata delle norme sospettate di illegittimità costituzionale, atteso il tenore letterale delle stesse.

6.- Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha depositato atto di intervento, chiedendo che la questione sia dichiarata manifestamente infondata.

La difesa statale contesta l’analogia fra la questione sollevata dalla Corte d’appello di Napoli e quelle decise con le sentenze n. 169 del 2019 e n. 34 del 2019 di questa Corte, evidenziando come le indicate modifiche apportate dall’art. 1, comma 777, della legge n. 208 del 2015 alla “legge Pinto” abbiano inserito, con l’art. 1-ter della medesima legge n. 89 del 2001, un sistema di rimedi preventivi, da sperimentare con congruo anticipo rispetto allo spirare dei termini, previsti dall’art. 2, comma 2-bis, della legge stessa, all’esito del quale si concretizza il diritto all’equa riparazione. Nell’ambito di tali rimedi si colloca l’istanza di accelerazione, di cui al comma 2 del citato art. 1-ter, che l’imputato e le altre parti hanno il diritto di depositare, personalmente o a mezzo di procuratore speciale, almeno sei mesi prima che siano trascorsi i termini predetti. L’Avvocatura generale auspica, pertanto, l’estensione alla questione in esame delle considerazioni svolte nella sentenza di questa Corte n. 121 del 2020, sottolineando come, diversamente dall’istanza che formava oggetto del previgente art. 2, comma 2-quinquies, della legge n. 89 del 2001, l’istanza di accelerazione del processo penale prevista dall’art. 1-ter, comma 2, della medesima legge abbia “natura effettivamente preventiva”, poiché la parte interessata ha la facoltà di proporla ben sei mesi prima dello spirare del termine oltre il quale la durata del processo viene considerata eccessiva e non, come nella precedente ipotesi, successivamente alla scadenza di tale termine.

Nell’atto di intervento si contesta anche l’asserita mancanza di “effettività” della nuova istanza di accelerazione in rapporto alla durata del processo, affermandosi che l’autorità giudiziaria, presso la quale pende il procedimento, non potrà non tenerne conto al fine di scandire i tempi di eventuali rinvii e di poter giungere tempestivamente alla decisione nel congruo tempo a disposizione.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.- La Corte d’appello di Napoli, con ordinanza dell’11 marzo 2020 (r.o. n. 173 del 2020), ha sollevato, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione agli artt. 6, paragrafo 1, e 13 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, questione di legittimità costituzionale dell’art. 1-bis, comma 2, in relazione agli artt. 1-ter, comma 2, e 6, comma 2-bis, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), nel testo risultante dalle modifiche apportate dall’art. 1, comma 777, lettere a) e m), della legge 28 dicembre 2015, n. 208, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)», «nella parte in cui subordina il riconoscimento del diritto ad una equa riparazione in favore di chi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale a causa dell’irragionevole durata di un processo penale la cui durata al 31 ottobre 2016 non ecceda i termini ragionevoli previsti dall’art. 2, comma 2-bis, e che non ancora sia stato assunto in decisione alla stessa data, all’esperimento del rimedio preventivo consistente nel depositare, personalmente o a mezzo di procuratore speciale, un’istanza di accelerazione almeno sei mesi prima che siano trascorsi i detti termini».

Con la medesima ordinanza, la Corte d’appello di Napoli dubita anche, in riferimento ai medesimi parametri, della legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, in relazione agli artt. 1-ter, comma 2, e 6, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001, nel testo risultante dalle modifiche apportate dall’art. 1, comma 777, lettere a), b) e m), della legge n. 208 del 2015, «nella parte in cui, con riferimento ai processi penali la cui durata al 31 ottobre 2016 non ecceda i termini ragionevoli previsti dall’art. 2, comma 2-bis, e a quelli non ancora assunti in decisione alla stessa data, sancisce l’inammissibilità della domanda di equa riparazione proposta dal soggetto che non ha esperito il rimedio preventivo consistente nel depositare, personalmente o a mezzo di procuratore speciale, un’istanza di accelerazione almeno sei mesi prima che siano trascorsi i detti termini».

2.- L’ordinanza di rimessione richiama le sentenze di questa Corte n. 169 del 2019 e n. 34 del 2019, nonché la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in tema di necessaria effettività dei rimedi preventivi, volti ad evitare l’eccessiva durata del procedimento. Ad avviso del giudice a quo, gli artt. 1-bis, comma 2, e 2, comma 1, della legge n. 89 del 2001, entrambi in relazione all’art. 1-ter, comma 2, e 6, comma 2-bis, della stessa legge, contrasterebbero con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 6, paragrafo 1, e 13 CEDU, atteso che, al deposito dell’istanza di accelerazione, ad opera dell’imputato o di una delle altre parti del giudizio penale, non corrisponderebbe alcuna effettiva diversa considerazione della vicenda processuale, tale da assicurarne, almeno tendenzialmente, la definizione entro il termine ragionevole. Le norme censurate imporrebbero, piuttosto, un inutile adempimento formale, senza rappresentare un rimedio preventivo effettivamente sollecitatorio.

3.- L’Avvocatura generale dello Stato ha chiesto che la questione sia dichiarata manifestamente infondata, evidenziando come le modifiche apportate dall’art. 1, comma 777, della legge n. 208 del 2015 alla legge n. 89 del 2001 abbiano introdotto un sistema di rimedi preventivi, nell’ambito dei quali si colloca l’istanza di accelerazione, prevista dall’art. 1-ter, comma 2, che va proposta sei mesi prima dello spirare del termine oltre il quale la durata del processo viene considerata eccessiva e della quale deve tener conto l’autorità giudiziaria presso cui pende il procedimento presupposto, al fine di modulare i tempi degli eventuali rinvii e di poter giungere tempestivamente alla decisione.

4.- Entrambe le questioni sollevate dal rimettente interrogano questa Corte sulla legittimità costituzionale della disciplina legislativa in forza della quale la mancata presentazione dell’istanza di accelerazione nel processo penale, di cui all’art. 1-ter, comma 2, della legge n. 89 del 2001, comporta la inammissibilità, ai sensi dell’art. 2, comma 1, della medesima legge, della domanda di equa riparazione.

Pertanto, pur se il rimettente estende la censura di legittimità costituzionale ad altre disposizioni (artt. 1-bis, comma 2, e 6, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001), lo scrutinio da parte di questa Corte deve incentrarsi sulla conformità a Costituzione dell’art. 2, comma 1, di tale legge, in riferimento all’art. 1-ter, comma 2, della stessa.

Deve, infatti, rilevarsi che, a norma dell’art. 1-bis, comma 2, «[c]hi, pur avendo esperito i rimedi preventivi di cui all’articolo 1-ter, ha subìto un danno patrimoniale o non patrimoniale a causa dell’irragionevole durata del processo ha diritto ad una equa riparazione»; tale disposizione si limita chiaramente a riconoscere il diritto della parte che ha esperito i rimedi preventivi ad agire per ottenere l’equa riparazione da irragionevole durata del processo e postula, ovviamente, la legittimità dei rimedi preventivi che contempla, sicché la decisione in ordine ad essa è condizionata da quella che si assume in ordine alla sanzione di inammissibilità per effetto della mancata presentazione dell’istanza di accelerazione nel processo penale.

L’art. 6, comma 2-bis, d’altra parte, detta la disciplina transitoria finalizzata all’applicazione dei rimedi preventivi di cui all’art. 1-ter, stabilendo che «[n]ei processi la cui durata al 31 ottobre 2016 ecceda i termini ragionevoli di cui all’articolo 2, comma 2-bis, e in quelli assunti in decisione alla stessa data non si applica il comma 1 dell’articolo 2». Quest’ultima norma, più che dare luogo essa stessa al dubbio di legittimità costituzionale prospettato dal rimettente, comporta l’applicabilità della disposizione censurata nel giudizio presupposto e quindi la rilevanza delle questioni. Il rimettente, del resto, non dubita in via diretta della legittimità costituzionale della disciplina transitoria, sicché la decisione ad essa relativa non potrà, del pari, che discendere dalla decisione che si adotta in ordine alla disciplina a regime, applicabile nel giudizio principale per effetto della disposizione transitoria.

Tanto premesso, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, in relazione all’art. 1-ter, comma 2, della legge n. 89 del 2001, sono fondate.

4.1.- Nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 della legge n. 89 del 2001 – come sostituito dall’art. 55, comma 1, lettera d), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 134 – nella parte in cui era negata la proponibilità della domanda di equa riparazione in pendenza del procedimento presupposto (sentenza n. 88 del 2018), questa Corte ha rilevato la carenza di «concreta efficacia acceleratoria» dei rimedi preventivi allestiti dalla legge n. 208 del 2015, posto che gli strumenti elencati dall’art. 1-ter della legge n. 89 del 2001 «alla luce della loro disciplina processuale, non vincolano il giudice a quanto richiestogli e, […] per espressa previsione normativa, “[r]estano ferme le disposizioni che determinano l’ordine di priorità nella trattazione dei procedimenti”» (art. 1-ter, comma 7, della legge n. 89 del 2001).

4.2.- Con la sentenza n. 34 del 2019 questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale «dell’art. 54, comma 2, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 […], convertito, con modificazioni, nella legge 6 agosto 2008, n. 133, come modificato dall’art. 3, comma 23, dell’Allegato 4 al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 […] e dall’art. 1, comma 3, lettera a), numero 6, del decreto legislativo 15 novembre 2011, n. 195 […]», considerando che l’istanza di prelievo nei processi amministrativi – da detta norma disciplinata, «prima della rimodulazione come rimedio preventivo operatane dalla legge n. 208 del 2015» – costituiva non un adempimento necessario, ma «una mera facoltà del ricorrente […] con effetto puramente dichiarativo di un interesse già incardinato nel processo e di mera “prenotazione della decisione” (che può comunque intervenire oltre il termine di ragionevole durata del correlativo grado di giudizio), risolvendosi in un adempimento formale, rispetto alla cui violazione la, non ragionevole e non proporzionata, sanzione di improponibilità della domanda di indennizzo risulta non in sintonia né con l’obiettivo del contenimento della durata del processo né con quello indennitario per il caso di sua eccessiva durata».

4.3.- La sentenza n. 169 del 2019 ha poi dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-quinquies, lettera e), della legge n. 89 del 2001, come introdotto dall’art. 55, comma 1, lettera a), numero 2), del d.l. n. 83 del 2012, come convertito, il quale prevedeva che «[n]on è riconosciuto alcun indennizzo: […] e) quando l’imputato non ha depositato istanza di accelerazione del processo penale nei trenta giorni successivi al superamento dei termini [di sua ragionevole durata] di cui all’articolo 2-bis [recte: all’art. 2, comma 2-bis]» della legge n. 89 del 2001. In tale occasione, questa Corte ha affermato che «la suddetta istanza, non diversamente dall’istanza di prelievo nel processo amministrativo, non costituisce […] un adempimento necessario ma una mera facoltà dell’imputato e non ha – ciò che è comunque di per sé decisivo − efficacia effettivamente acceleratoria del processo. Atteso che questo, pur a fronte di una siffatta istanza, può comunque proseguire e protrarsi oltre il termine di sua ragionevole durata, senza che la violazione di detto termine possa addebitarsi ad esclusiva responsabilità del ricorrente». La predetta sentenza ha comunque precisato che la mancata presentazione dell’istanza di accelerazione nel processo penale presupposto poteva eventualmente assumere rilievo ai fini della determinazione del quantum dell’indennizzo ex lege n. 89 del 2001, ma non condizionare la stessa proponibilità della correlativa domanda.

4.4.- Da ultimo, la sentenza n. 121 del 2020, con riferimento ai rimedi preventivi introdotti per i processi civili dalla legge n. 208 del 2015 (art. 1-ter, comma 1, della legge n. 89 del 2001) quale condizione di ammissibilità della domanda di equo indennizzo, ha invece ritenuto gli stessi, per l’effetto acceleratorio della decisione che può conseguirne, riconducibili alla categoria dei «rimedi preventivi volti ad evitare che la durata del processo diventi eccessivamente lunga», in quanto consistenti non già nella «proposizione di un’istanza con effetto dichiarativo di un interesse già incardinato nel processo e di mera “prenotazione della decisione” – che si riduce ad un adempimento puramente formale -», ma nella «proposizione di possibili, e concreti, “modelli procedimentali alternativi”, volti ad accelerare il corso del processo, prima che il termine di durata massima sia maturato».

4.5.- Le richiamate sentenze di questa Corte sono del tutto coerenti con la giurisprudenza della Corte EDU, per la quale, ai fini della “effettività” dei ricorsi relativi a cause concernenti l’eccessiva durata dei procedimenti, la migliore soluzione in termini assoluti è la prevenzione. Ciò comporta che, rispetto all’obbligo di esaminare le cause entro un termine ragionevole, imposto dall’art. 6, paragrafo 1, CEDU agli Stati contraenti, alle eventuali carenze del sistema giudiziario può sopperire nella maniera più efficace un ricorso finalizzato ad accelerare i procedimenti. Tale ricorso è da preferire ad un rimedio meramente risarcitorio, ma è “effettivo” soltanto nella misura in cui rende più sollecita la decisione da parte del tribunale interessato ed è adeguato solo se non interviene in una situazione in cui la durata del procedimento è già stata chiaramente eccessiva (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 25 febbraio 2016, Olivieri e altri contro Italia, e, più di recente, sentenza 30 aprile 2020, Keaney contro Irlanda).

4.6.- Ad identiche conclusioni deve pervenirsi con riferimento all’art. 2, comma 1, in relazione all’art. 1-ter, comma 2, della legge n. 89 del 2001, nel testo risultante dalle modifiche apportate dall’art. 1, comma 777, della legge n. 208 del 2015, nella parte in cui comportano l’inammissibilità della domanda di equa riparazione proposta dall’imputato o da altra parte del processo penale che non abbiano depositato un’istanza di accelerazione almeno sei mesi prima che siano trascorsi i termini di cui all’art. 2, comma 2-bis. Le disposizioni censurate contrastano con l’esigenza del giusto processo, per il profilo della sua ragionevole durata, e con il diritto ad un ricorso effettivo, garantiti dagli evocati parametri convenzionali, la cui violazione implica, per interposizione, quella dell’art. 117, primo comma, Cost.

4.7.- Il deposito dell’istanza di accelerazione nel processo penale, pur presentato come diritto alla stregua dell’art. 1-bis, comma 1, della legge n. 89 del 2001, opera, piuttosto, come un onere, visto che il mancato adempimento, in base al comma 1 del successivo art. 2, comporta l’inammissibilità della domanda di equa riparazione. Tuttavia, la presentazione dell’istanza, che pur deve intervenire almeno sei mesi prima che siano trascorsi i termini ragionevoli fissati per ciascun grado dall’art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001, non offre alcuna garanzia di contrazione dei tempi processuali, non innesta un modello procedimentale alternativo e non costituisce perciò uno strumento a disposizione della parte interessata per prevenire l’ulteriore protrarsi del processo, né implica una priorità nella trattazione del giudizio, come chiarisce il comma 7 dell’art. 1-ter della stessa legge, in base al quale restano fermi, nella formazione dei ruoli di udienza e nella trattazione dei processi, i criteri dettati dall’art. 132-bis del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale).

4.8.- In tal senso, l’istanza di accelerazione prevista dalle norme censurate, quale facoltà dell’imputato e delle altre parti del processo penale, non rivela efficacia effettivamente acceleratoria del giudizio, atteso che questo, pur a fronte dell’adempimento dell’onere di deposito, può comunque proseguire e protrarsi oltre il termine di ragionevole durata, senza che la violazione dello stesso possa addebitarsi ad esclusiva responsabilità della parte. La mancata presentazione dell’istanza di accelerazione nel processo penale può eventualmente assumere rilievo ai fini della determinazione della misura dell’indennizzo ex lege n. 89 del 2001, ma non deve condizionare la proponibilità della correlativa domanda.

4.9.- Va, dunque, dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, in relazione all’art. 1-ter, comma 2, della legge n. 89 del 2001, nel testo risultante dalle modifiche apportate dall’art. 1, comma 777, lettere a) e b), della legge n. 208 del 2015.

Per le ragioni esposte al punto 4, restano assorbite le questioni di legittimità costituzionale concernenti l’art. 1-bis, comma 2, e l’art. 6, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001.

P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, in relazione all’art. 1-ter, comma 2, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), nel testo risultante dalle modifiche apportate dall’art. 1, comma 777, lettere a) e b), della legge 28 dicembre 2015, n. 208, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)».

Legge Pinto: dopo la riforma del 2012 non occorre allegare la procura speciale

Cassazione Civile Sez. VI, 03/03/2017, n. 5465
Non occorre la sottoscrizione di un difensore munito di procura speciale per i ricorsi per equa riparazione proposti dopo le modifiche del 2012 alla legge Pinto.

La Corte di Cassazione con la Sentenza n. 5465 del 03/03/2017 interrogata sulla necessità di allegazione della procura speciale alla domanda di equa riparazione per irragionevole durata del processo ha accolto i motivi di ricorso con la motivazione seguente: “il nuovo testo della legge nr. 89/01, come modificata dal D.L. n. 83/12, convertito in legge n. 134/12, non stabilisce più che la domanda debba essere proposta da un difensore munito di procura speciale, come invece disponeva l’originario art. 3, secondo comma, della legge.
Infatti, tanto l’art 3, 1 comma, quanto l’art. 5-ter, 2° comma, della legge n. 89/01, applicabili al momento della proposizione della domanda d’equa riparazione in oggetto (depositata il 23.12.2013), riproducono del 2° comma dell’art. 3 previgente solo il richiamo all’art. 125 c.p.c., ma non anche la previsione che il ricorso sia sottoscritto da un difensore munito di procura speciale. Dal che si ricava che detto requisito non è più imposto dalla legge, coerentemente all’ottica (espressa in generale nella Relazione alla legge di conversione) di un maggiore semplificazione del contenzioso in materia.”

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Fonte: Cassazione Civile Sez. VI, 03/03/2017, n. 5465

Piano straordinario di rientro del debito Pinto

Dal portale del Ministero di Giustizia è possibile leggere che per i pagamento dei decreti emessi dal 1° settembre 2015 dalle Corti di appello di Caltanissetta – Catanzaro – Genova – Lecce – Napoli – Perugia – Potenza – Roma – Salerno è prevista una deroga alla richiesta degli indennizzi che nelle altre Corti d’appello viene inoltrata alle ragionerie dei distretti competenti. Infatti l’elevato numero di decreti di condanna ancora da pagare, a causa dei modesti fondi inizialmente stanziati ha determinato il formarsi di un consistente debito arretrato non fronteggiabile se non attraverso un intervento straordinario.

Pertanto è stato elaborato un Piano di rientro dal debito che si avvale della collaborazione offerta da Banca d’Italia per lo smaltimento delle pratiche di pagamento.

La collaborazione con Banca d’Italia è stata rinnovata il 18 febbraio 2020, e prevede, a differenza di quanto previsto dalla precedente convenzione scaduta nel dicembre 2018, che l’istruttoria delle pratiche sia svolta interamente dall’Ufficio I.

Il Piano prevede che:

l’Ufficio I – Direzione generale degli affari giuridici e legali – proceda al pagamento dei provvedimenti di condanna dell’Amministrazione depositati a partire dal 1° settembre 2015 dalle nove Corti di Appello di Caltanissetta – Catanzaro – Genova – Lecce – Napoli – Perugia – Potenza – Roma – Salerno.

I decreti di condanna emessi a partire 1° settembre 2015 (data del deposito in cancelleria) dalle Corti di Appello suddette saranno, quindi, posti in pagamento dall’Amministrazione centrale per tramite della Banca d’Italia purché ritualmente notificati al Ministero presso l’Avvocatura dello Stato e quindi definitivi.

Infatti si ricorda che la notifica del ricorso, unitamente al decreto che accoglie la domanda di equa riparazione, deve essere effettuata entro il termine perentorio di 30 giorni dal deposito in cancelleria del provvedimento al Ministero della giustizia presso l’Avvocatura dello Stato Distrettuale competente ed ai fini della liquidazione deve essere inoltrato il modulo unitamente al Decreto definitivo con attestazione di non opposizione.

ISTRUZIONI PER LA LIQUIDAZIONE PRESSO UFFICIO I

L’Ufficio I ha competenza relativamente al contenzioso nel quale è interessato il Ministero nelle seguenti materie:

pagamento spese di giustizia e liquidazione compensi ai collaboratori della autorità giudiziaria

equa riparazione per ingiusta detenzione ed errore giudiziario (la legittimazione passiva spetta al Ministero dell’economia e delle finanze)

libere professioni, ordini professionali, ricorsi contro circolari e decreti nelle materie di competenza del Dipartimento per gli affari di giustizia

risarcimento danni nei confronti dell’Amministrazione in dipendenza dell’attività di giustizia

responsabilità civile dei magistrati ex legge n.117/1988 (la legittimazione passiva spetta alla Presidenza del Consiglio dei Ministri)

costituzione di parte civile nei procedimenti penali in cui il Ministero è parte offesa e danneggiato dal reato

esecuzione di sentenze ed altri provvedimenti giurisdizionali nelle sole materie di competenza del Dipartimento per gli affari di giustizia

equa riparazione ai sensi della legge 24 marzo 2001 n. 89

CONTATTI – INOLTRO DOMANDE

L’Ufficio I – Contenzioso risponde alle richieste inoltrate dalle parti o dagli avvocati (esclusivamente per le pratiche per le quali questi ultimi abbiano ricevuto mandato o delega espressa) ai seguenti indirizzi:

posta elettronica ordinaria (PEO) ufficio1.dgdirittiumani.dag@giustizia.it

posta elettronica certificata (PEC) prot.dag@giustiziacert.it

RICHIESTA INFORMAZIONI

L’Ufficio I – Contenzioso legge Pinto, con riferimento al Piano straordinario di rientro dal debito in accordo con Banca Italia, per i decreti emessi a far data dal 1° settembre 2015 dalle Corti di Appello di Caltanissetta – Catanzaro – Genova – Lecce – Napoli – Perugia – Potenza – Roma – Salerno, risponde alle richieste delle parti o degli avvocati (esclusivamente per le pratiche per le quali questi ultimi abbiano mandato o delega espressa del cliente) con le seguenti modalità:

posta elettronica ordinaria (PEO) info.leggepinto.bankitalia.dgagl.dag@giustizia.it
gli interessati dovranno a tal fine utilizzare esclusivamente indirizzi di posta elettronica ordinaria (PEO) e non indirizzi di posta elettronica certificata (PEC)
trattandosi di mero servizio di informazione non potranno con tale mezzo essere inviati all’Amministrazione documenti e/o dichiarazioni.
Pertanto, non si terrà conto di eventuale documentazione finalizzata al pagamento ai sensi dell’art.5-sexies della legge n.89/01, dovendo tale documentazione pervenire esclusivamente al seguente indirizzo di posta elettronica certificata (PEC) :prot.dag@giustiziacert.it
Poiché la risposta da parte dell’Ufficio richiede una verifica dello stato di lavorazione della pratica, il tempo di attesa non é preventivabile, su cui influirà il numero di richieste pervenute.

In ogni caso, l’ordine di trattazione è l’ordine cronologico di arrivo delle pec.