Rimedi preventivi – Giudice di pace

Civile Sent. Sez. 2 Num. 21876 Anno 2023

“nei processi civili davanti al giudice di pace, ai fini dell’ammissibilità della domanda di equa riparazione per la violazione del termine ragionevole di durata, ex artt. 1-bis, 1-ter, comma 1, e 2, comma 1,
della legge n. 89 del 2001, sussiste per la parte l’onere di esperire il rimedio preventivo della proposizione dell’istanza di decisione a seguito di trattazione orale a norma dell’art. 281-sexies c.p.c., in
quanto, pur costituendo la “regola”, in base al modello dell’art. 321 c.p.c. (nella formulazione antecedente alle modifiche operate dal d.lgs. 149 del 2022), che la decisione della causa in tali processi
avvenga a seguito di discussione orale, detta istanza non è incompatibile strutturalmente con il rito davanti al giudice di pace, alla stregua dell’art. 311 c.p.c., e riveste comunque funzione
acceleratoria in riferimento alle modalità di discussione della causa, redazione della sentenza e pubblicazione della stessa”.

illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, della legge 24 marzo 2001, n. 89

La recente sentenza della Corte Costituzionale ha stabilito che è incostituzionale una parte dell’articolo 2, comma 1, della legge del 24 marzo 2001, n. 89. Questa legge riguarda la compensazione equa per violazioni dei tempi ragionevoli di processo e modifica l’articolo 375 del codice di procedura civile. La specifica parte dichiarata incostituzionale riguarda la norma che rende inammissibile la richiesta di compensazione equa se non è stato prima utilizzato il rimedio preventivo menzionato nell’articolo 1-ter, comma 6, della stessa legge. (ovvero, nella parte in cui subordina il riconoscimento del diritto
ad una equa riparazione, in favore di chi abbia subito un danno patrimoniale o non patrimoniale a causa
dell’irragionevole durata di un processo, all’esperimento del rimedio preventivo consistente nel deposito, nei
giudizi davanti alla Corte di cassazione, di un’istanza di accelerazione almeno due mesi prima che sia
trascorso il termine di cui all’art. 2, comma 2-bis, della medesima legge.
)

SENTENZA N. 142
ANNO 2023
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Silvana SCIARRA; Giudici : Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco
MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco
VIGANÒ, Luca ANTONINI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosara SAN
GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1-ter, comma 6, della legge 24 marzo 2001, n. 89
(Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica
dell’articolo 375 del codice di procedura civile), promosso dalla Corte d’appello di Firenze, sezione quarta
civile, nel procedimento vertente tra il Ministero della giustizia e B. A. e altri, con ordinanza del 26 ottobre
2021, iscritta al n. 85 del registro ordinanze 2022 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n.
34, prima serie speciale, dell’anno 2022.
Udito nella camera di consiglio del 7 giugno 2023 il Giudice relatore Nicolò Zanon;
deliberato nella camera di consiglio del 7 giugno 2023.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 26 ottobre 2021 (reg. ord. n. 85 del 2022), la Corte d’appello di Firenze, sezione
quarta civile, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1-ter, comma 6, della legge 24
marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo
e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), inserito dall’art. 1, comma 777, lettera a), della
legge 28 dicembre 2015, n. 208 recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale
dello Stato (legge di stabilità 2016)», nella parte in cui subordina il riconoscimento del diritto ad una equa
riparazione – in favore di chi abbia subito un danno patrimoniale o non patrimoniale a causa
dell’irragionevole durata di un processo – all’esperimento del rimedio preventivo consistente nel depositare
nei giudizi davanti alla Corte di cassazione un’istanza di accelerazione almeno due mesi prima che siano
trascorsi i termini di cui all’art. 2, comma 2-bis, della medesima legge. Il giudice a quo lamenta il contrasto
della disposizione censurata con gli artt. 111, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione,
quest’ultimo in relazione agli artt. 6, paragrafo 1, e 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo
(CEDU).
2.– La Corte rimettente riferisce di essere stata investita dell’opposizione ex art. 5-ter della legge n. 89
del 2001, proposta dal Ministero della giustizia contro il decreto che ha accolto la domanda di equa
riparazione avanzata in data 22 ottobre 2019 dai ricorrenti B. A. e altri, in relazione alla durata non
ragionevole della fase di legittimità di un precedente giudizio di equa riparazione.
Il Ministero della giustizia, tra i vari motivi di opposizione, ha eccepito l’inammissibilità della domanda
dei ricorrenti, in quanto nel giudizio presupposto non risultava depositata, davanti alla Corte di cassazione,
l’istanza di accelerazione di cui all’art. 1-ter, comma 6, della legge n. 89 del 2001.
In riferimento a tale ultima disposizione, i ricorrenti opposti hanno formulato eccezione di illegittimità
costituzionale, che è stata ritenuta rilevante e non manifestamente infondata.
3.– In punto di rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale, dopo aver affermato che tutti gli
altri motivi di opposizione proposti dal Ministero della giustizia «non sembrerebbero in grado, nella
particolare prospettiva decisionale da adottare nella presente sede, di condurre all’accoglimento
dell’opposizione stessa», il rimettente ha sostenuto che è invece incontroversa la mancata presentazione, da
parte degli opposti, dell’istanza di accelerazione davanti alla Corte di cassazione ex art. 1-ter, comma 6,
della legge n. 89 del 2001, norma ritenuta «applicabile […] ratione temporis». Per tale ragione, la domanda
di equa riparazione sarebbe inammissibile e l’opposizione del Ministero dovrebbe essere accolta.
Secondo il giudice a quo, infatti, la disposizione censurata troverebbe applicazione anche nelle ipotesi in
cui il giudizio presupposto – come appunto accade nel caso di specie – sia anch’esso un procedimento per
equa riparazione, dovendosi considerare quest’ultimo alla stregua di un giudizio ordinario.
4.– Quanto alla non manifesta infondatezza, la Corte d’appello di Firenze, descritto il quadro normativo
ed illustrato il contenuto delle disposizioni di cui agli artt. 1-bis, 1-ter e 2, comma 1, della legge n. 89 del
2001, ha richiamato le sentenze di questa Corte n. 175 del 2021, n. 121 del 2020, n. 169 e n. 34 del 2019,
evidenziando come esse abbiano risolto, nel senso dell’illegittimità costituzionale delle disposizioni di volta
in volta censurate, questioni che presentavano «caratteristiche di forte analogia» con quelle sollevate
nell’odierno giudizio.
Nelle decisioni citate, infatti, questa Corte, richiamando l’orientamento espresso dalla Corte europea dei
diritti dell’uomo, avrebbe affermato il principio per cui i rimedi preventivi contro la durata eccessiva dei
procedimenti sono ammissibili solo se «effettivi» ed efficacemente sollecitatori. Tali essi sarebbero solo in
quanto velocizzino davvero la decisione da parte del giudice competente, offrendo una reale garanzia di
contrazione dei tempi processuali, anche attraverso la messa a disposizione della parte, interessata a
prevenire la violazione del termine ragionevole di durata, di un modello procedimentale alternativo «in
grado di condurre a tale risultato». Non sarebbero conformi ai parametri invocati, invece, quei rimedi che
costituiscano «una mera facoltà», con effetto «puramente dichiarativo di un interesse già incardinato nel
processo» e di mera «prenotazione della decisione» (che può comunque intervenire oltre il termine di
ragionevole durata del correlativo grado di giudizio, nonostante l’esperimento del rimedio). Essi, infatti, si
risolverebbero in un mero «adempimento formale», rispetto alla cui violazione la sanzione consistente
nell’improponibilità o inammissibilità della domanda di equa riparazione apparirebbe come non ragionevole e non proporzionata.
In particolare, la Corte rimettente osserva come anche l’istanza di accelerazione da depositare nel
giudizio davanti alla Corte di cassazione rappresenti un tipo di rimedio preventivo che non presenta alcuna
reale efficacia acceleratoria del processo, non introduce modelli procedimentali alternativi e «non comporta
alcuna garanzia di contrazione dei tempi del processo, integrando l’esercizio di una facoltà della parte che,
sostanzialmente, ribadisce in questo modo un interesse che è già incardinato in capo ad essa».
Considerato in diritto
1.– La Corte d’appello di Firenze, sezione quarta civile, solleva questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 1-ter, comma 6, della legge n. 89 del 2001, nella parte in cui subordina il riconoscimento del diritto
ad una equa riparazione, in favore di chi abbia subito un danno patrimoniale o non patrimoniale a causa
dell’irragionevole durata di un processo, all’esperimento del rimedio preventivo consistente nel deposito, nei
giudizi davanti alla Corte di cassazione, di un’istanza di accelerazione almeno due mesi prima che sia
trascorso il termine di cui all’art. 2, comma 2-bis, della medesima legge.
Viene prospettato il contrasto con gli artt. 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost.,
quest’ultimo in relazione agli artt. 6, paragrafo 1, e 13 CEDU.
La Corte rimettente riferisce di essere stata investita dell’opposizione proposta, ai sensi dell’art. 5-ter
della legge n. 89 del 2001, dal Ministero della giustizia contro un decreto di accoglimento della domanda di
equa riparazione avanzata per l’eccessiva, e dunque non ragionevole, durata di un precedente procedimento
di equa riparazione, con particolare riferimento al giudizio svoltosi davanti alla Corte di cassazione.
Il Ministero della giustizia, tra i vari motivi di opposizione, ha eccepito l’inammissibilità della domanda,
non avendo i ricorrenti depositato, nel giudizio presupposto, l’istanza di accelerazione di cui all’art. 1-ter,
comma 6, della legge n. 89 del 2001.
2.– In punto di rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale, ritenuti non fondati i restanti motivi
di opposizione articolati dal Ministero della giustizia, il giudice a quo sostiene essere incontroversa la
mancata presentazione dell’istanza di accelerazione richiesta dalla disposizione censurata, espressamente
ritenuta applicabile ratione temporis. Per tale motivo, sarebbe fondata l’eccezione d’inammissibilità
proposta e l’opposizione dovrebbe conseguentemente trovare accoglimento.
3.– Quanto alla non manifesta infondatezza, la Corte d’appello di Firenze, dopo aver illustrato il quadro
normativo di riferimento, richiama alcune pronunce con le quali questa Corte avrebbe accolto questioni che
presentavano «caratteristiche di forte analogia» con quelle sollevate nell’odierno giudizio (sentenze n. 175
del 2021, n. 121 del 2020, n. 169 e n. 34 del 2019).
Tali decisioni, ricordando l’orientamento espresso dalla Corte EDU, hanno ritenuto costituzionalmente
illegittimi alcuni dei rimedi preventivi previsti dalla legge n. 89 del 2001 – in seguito alle modifiche a
quest’ultima apportate dalla legge n. 208 del 2015 – escludendo che essi fossero «effettivi» ed efficacemente
sollecitatori e, dunque, in grado di velocizzare davvero la decisione da parte del giudice competente.
Il rimettente, quindi, osserva che anche l’istanza di accelerazione da depositare nel giudizio davanti alla
Corte di cassazione costituirebbe un tipo di rimedio preventivo privo di alcuna reale efficacia acceleratoria
del processo, non introducendo modelli procedimentali alternativi e non comportando alcuna garanzia di
contrazione dei tempi del processo medesimo.
4.– In via preliminare, è utile ricostruire brevemente il quadro normativo di riferimento.
La legge n. 208 del 2015, nel modificare la legge n. 89 del 2001, che prevede e disciplina il diritto di
richiedere un’equa riparazione in caso di eccessiva durata di un processo, vi ha introdotto l’art. 1-bis,
comma 1, secondo cui «[l]a parte di un processo ha diritto a esperire rimedi preventivi», da attivarsi proprio
allo scopo di scongiurare la violazione dell’art. 6, paragrafo 1, CEDU, sotto il profilo del mancato rispetto di
termini ragionevoli per la conclusione di un processo.
Tali termini sono definiti dal successivo art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001, secondo cui, per
quanto qui interessa, nel giudizio di legittimità il processo non deve eccedere la durata di un anno.
All’art. 1-ter della medesima legge è affidato il compito di indicare i rimedi preventivi, calibrati in
relazione a ciascuna tipologia di processo: per il giudizio di legittimità, in particolare, il comma 6 dispone
che «[n]ei giudizi davanti alla Corte di cassazione la parte ha diritto a depositare un’istanza di accelerazione
almeno due mesi prima che siano trascorsi i termini di cui all’articolo 2, comma 2-bis».
Le conseguenze della mancata attivazione di tale strumento sono disciplinate dall’art. 2, comma 1, il
quale – come ha evidenziato la Corte d’appello rimettente – sancisce l’inammissibilità della «domanda di
equa riparazione proposta dal soggetto che non ha esperito i rimedi preventivi all’irragionevole durata del
processo di cui all’articolo 1-ter».
Ne deriva che, come già affermato da questa Corte in riferimento all’analogo istituto dell’istanza di
accelerazione prevista per il processo penale dal comma 2 del citato art. 1-ter, anche il deposito dell’istanza
di accelerazione nel giudizio davanti alla Corte di cassazione, «pur presentato come diritto alla stregua
dell’art. 1-bis, comma 1, della legge n. 89 del 2001, opera, piuttosto, come un onere, visto che il mancato
adempimento, in base al comma 1 del successivo art. 2, comporta l’inammissibilità della domanda di equa
riparazione» (sentenza n. 175 del 2021).
5.– Ciò premesso, occorre in primo luogo definire il thema decidendum.
Il dispositivo dell’ordinanza di rimessione circoscrive l’oggetto delle questioni sollevate al solo art. 1-ter
, comma 6, della legge n. 89 del 2001. Tuttavia, le argomentazioni spese nella motivazione dell’ordinanza, e
la stessa principale censura avanzata, ruotano attorno alla sanzione d’inammissibilità della domanda,
prevista dal successivo art. 2, comma 1, nel caso in cui il diritto ad esperire il rimedio preventivo in esame
non sia esercitato (recte: l’onere di ricorrere ad esso non sia adempiuto).
Secondo la Corte rimettente, infatti, l’eccezione di illegittimità costituzionale formulata dai ricorrenti
acquista rilevanza – e, al contempo, non si può ritenerne la manifesta infondatezza – proprio «[i]n relazione
[…] al motivo di opposizione» articolato dal Ministero della giustizia, in riferimento all’inammissibilità
della domanda di equa riparazione derivante dal «mancato esperimento del rimedio preventivo dell’istanza
di accelerazione».
Risulta evidente, allora, che la Corte d’appello di Firenze intende censurare l’intero congegno
normativo, la cui applicazione porta a sanzionare con l’inammissibilità della domanda di equa riparazione la mancata presentazione, nei termini prescritti, dell’istanza di accelerazione nel corso del giudizio davanti alla Corte di cassazione.
Nel ricordare gli orientamenti della giurisprudenza costituzionale, del resto, il Collegio a quo afferma
che le pronunce richiamate sono accomunate dalla valutazione in termini di illegittimità costituzionale di
quei rimedi preventivi «valorizzati dall’art. 2, n. 1, L. 89/2001 – mediante il riferimento all’art. 1ter della
medesima legge – in termini di inammissibilità della domanda di equa riparazione».
L’oggetto delle questioni effettivamente sollevate va individuato alla stregua del contenuto delle censure
formulate nella stessa ordinanza di rimessione (sentenze n. 148 del 2022, n. 234 e n. 224 del 2020), e quindi
ricostruendo l’effettiva volontà del rimettente in base ad una lettura coordinata della motivazione e del
dispositivo (sentenze n. 35 del 2023, n. 228 e n. 88 del 2022). Questa Corte, infatti, ha già chiarito che
«un’interpretazione non formalistica del canone dell’esatta ed esaustiva indicazione della disposizione
censurata, ricavabile dall’art. 23, primo e terzo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla
costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), impone di identificare il thema decidendum
tenendo conto della motivazione e dell’intero contesto dell’ordinanza di rimessione (sentenze n. 258 del
2012 e n. 181 del 2011)» (sentenza n. 12 del 2023).
Deve perciò ritenersi che le questioni sollevate dalla Corte d’appello di Firenze rimettente interroghino
questa Corte sulla legittimità costituzionale della disciplina legislativa in forza della quale la mancata
presentazione dell’istanza di accelerazione davanti alla Corte di cassazione, di cui all’art. 1-ter, comma 6,
della legge n. 89 del 2001, comporta la inammissibilità, ai sensi dell’art. 2, comma 1, della medesima legge,
della domanda di equa riparazione.
6.– Così precisato l’oggetto dell’odierno giudizio, le questioni sono fondate, in riferimento agli artt. 111,
secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6, paragrafo 1, e 13 CEDU.
7.– In sintonia con la giurisprudenza della Corte EDU, la giurisprudenza costituzionale è ormai costante
nell’affermare che i rimedi preventivi sono non solo ammissibili, eventualmente in combinazione con quelli
indennitari, ma addirittura preferibili, in quanto volti a evitare che i procedimenti giudiziari si protraggano
eccessivamente nel tempo (sentenze n. 107 del 2023, n. 175 del 2021 e n. 88 del 2018). Occorre, tuttavia,
che ne consegua un rimedio effettivo, ciò che accade soltanto laddove venga realmente resa più sollecita la
decisione da parte del giudice competente (in tal senso, di recente, Corte europea dei diritti dell’uomo,
quinta sezione, sentenza 30 aprile 2020, Keaney contro Irlanda, e prima sezione, sentenza 28 aprile 2022,
Verrascina ed altri contro Italia).
In applicazione di tali principi, si è così affermato che non rientra nel catalogo dei rimedi preventivi
effettivi l’imposizione di adempimenti che costituiscano espressione di «una mera facoltà del ricorrente […]
con effetto puramente dichiarativo di un interesse già incardinato nel processo e di mera “prenotazione della
decisione” (che può comunque intervenire oltre il termine di ragionevole durata del correlativo grado di
giudizio)» (sentenza n. 34 del 2019). Adempimenti di tal genere, infatti, non avrebbero «efficacia
effettivamente acceleratoria del processo» (sentenza n. 169 del 2019).
Con particolare riferimento all’istanza di accelerazione introdotta come rimedio preventivo nell’ambito
del processo penale dall’art. 1-ter, comma 2, della legge n. 89 del 2001, questa Corte ha affermato che la sua
presentazione «non offre alcuna garanzia di contrazione dei tempi processuali, non innesta un modello
procedimentale alternativo e non costituisce perciò uno strumento a disposizione della parte interessata per
prevenire l’ulteriore protrarsi del processo, né implica una priorità nella trattazione del giudizio» (sentenza
n. 175 del 2021).
Le medesime considerazioni possono essere replicate in relazione all’istanza di accelerazione da
depositare nel giudizio davanti alla Corte di cassazione ai sensi delle disposizioni oggetto dell’odierno
scrutinio.
Alla luce della vigente disciplina processuale, infatti, la sua presentazione non vincola il giudice «a
quanto richiestogli» (sentenza n. 88 del 2018), ossia ad instradare su un binario preferenziale il processo nel
quale l’istanza di accelerazione è depositata nei termini prescritti. In altre parole, nulla esclude che il
processo, «pur a fronte di una siffatta istanza, [possa] comunque proseguire e protrarsi oltre il termine di sua
ragionevole durata» (sentenza n. 169 del 2019), in violazione anche dell’art. 111, secondo comma, Cost.
A differenza dei casi scrutinati dalle sentenze n. 107 del 2023 e n. 121 del 2020, con riferimento ai
rimedi preventivi introdotti dai commi 1 e 3 dell’art. 1-ter della legge n. 208 del 2015, il deposito
dell’istanza in esame non si risolve nella «proposizione di possibili, e concreti, “modelli procedimentali
alternativi”, volti ad accelerare il corso del processo, prima che il termine di durata massima sia maturato»
(sentenza n. 121 del 2020).
La disciplina processuale del giudizio davanti alla Corte di cassazione, infatti, non ricollega al deposito
dell’istanza di accelerazione in esame alcun effetto significativo sui tempi del procedimento, dal momento
che il legislatore non ha previsto, come conseguenza della presentazione di essa, l’attivazione, fosse pure
mediata dalla valutazione del giudice, di un diverso – e, in tesi, più celere – modulo procedimentale per
addivenire alla decisione della causa.
La possibilità di offrire alle parti un diverso, e più sollecito, modello procedimentale non è certo
agevolata dalle peculiarità del giudizio di legittimità, caratterizzato dalla mancanza di una fase istruttoria e dalla circostanza che la causa viene discussa – per essere decisa nella stessa seduta – in un’unica udienza o
adunanza, a seconda che trovi applicazione il procedimento in pubblica udienza oppure quello in camera di consiglio.
Tuttavia, tali caratteristiche non impediscono, in assoluto, di introdurre semplificazioni procedurali che
incidano, riducendoli, sui tempi del processo.
A tale proposito, va segnalato che l’art. 3, comma 28, lettera g), del decreto legislativo 10 ottobre 2022,
n. 149 (Attuazione della legge 26 novembre 2021, n. 206, recante delega al Governo per l’efficienza del
processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie
nonché in materia di esecuzione forzata), ha introdotto – con il nuovo art. 380-bis del codice di procedura
civile, inapplicabile ratione temporis nel giudizio a quo – un rito accelerato anche nell’ambito del giudizio
davanti alla Corte di cassazione.
Ciò che conta sottolineare in questa sede, tuttavia, è che il legislatore della riforma – pur intervenuto,
sotto altri profili, sul testo dell’art. 1-ter della legge n. 89 del 2001 – non ha inteso instaurare alcun
collegamento diretto tra l’istanza disciplinata dalle disposizioni censurate e il suddetto rito accelerato.
7.1.– In ogni caso, il deposito dell’istanza di accelerazione in parola, in tempo utile ad evitare il
superamento dei termini di ragionevole durata del processo, costituisce manifestazione della volontà di
ottenere una decisione rapida.
La mancata presentazione di tale istanza, quindi, «può eventualmente assumere rilievo (come indice di
sopravvenuta carenza o non serietà dell’interesse al processo del richiedente) ai fini della determinazione del
quantum dell’indennizzo ex lege n. 89 del 2001» (sentenza n. 169 del 2019).
Quel che, invece, non risulta conforme ai parametri costituzionali evocati è che l’omesso deposito
dell’istanza possa condizionare la stessa ammissibilità della domanda di equa riparazione (in senso analogo, sentenza n. 175 del 2021).
8.– Va pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, della legge n. 89 del 2001,
nella parte in cui prevede l’inammissibilità della domanda di equa riparazione nel caso di mancato
esperimento del rimedio preventivo di cui all’art. 1-ter, comma 6, della medesima legge.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione
di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375
del codice di procedura civile), nella parte in cui prevede l’inammissibilità della domanda di equa
riparazione nel caso di mancato esperimento del rimedio preventivo di cui all’art. 1-ter, comma 6, della
medesima legge.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 giugno 2023.
F.to:
Silvana SCIARRA, Presidente
Nicolò ZANON, Redattore
Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
Depositata in Cancelleria il 13 luglio 2023
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto Milana
Le sentenze e le ordinanze della Corte costituzionale sono pubblicate nella prima serie speciale della Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana (a norma degli artt. 3 della legge 11 dicembre 1984, n. 839 e 21 del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 1985, n. 1092) e nella Raccolta Ufficiale delle sentenze e ordinanze della Corte costituzionale (a norma dell’art. 29 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, approvate dalla Corte costituzionale il 16 marzo 1956).
Il testo pubblicato nella Gazzetta Ufficiale fa interamente fede e prevale in caso di divergenza

185 bis c.p.c., transazione, conciliazione e Legge Pinto

L’estinzione del giudizio per accordo tra le parti non fa venir meno i presupposti della legge Pinto.

L’articolo 185-bis del Codice di Procedura Civile (c.p.c.) ha introdotto uno strumento di conciliazione che può essere utilizzato in vari contesti giuridici. Questo strumento è applicabile sia nei giudizi ordinari che riguardano diritti disponibili, sia nei procedimenti cautelari, e anche nei procedimenti sommari come previsto dall’articolo 702-bis.

La formulazione della proposta conciliativa da parte del giudice non è rigidamente definita dalla normativa, lasciando quindi spazio a un approccio flessibile e atipico. Interessante notare che la legge non richiede che tali proposte siano motivate, poiché la motivazione è generalmente associata alla possibilità di impugnazione dei provvedimenti giurisdizionali. In questo contesto, dato che la proposta conciliativa mira a concludere la lite, non sussiste generalmente un interesse delle parti all’impugnazione, a meno che non si tratti di questioni relative a diritti indisponibili.

Inoltre, per quanto riguarda le proposte formulate ai sensi dell’art. 185-bis c.p.c., è importante considerare la loro natura trilaterale, con il giudice che funge da facilitatore e ratificatore dell’accordo in caso di successo.

Il processo di conciliazione può essere formalizzato attraverso un’ordinanza che stabilisce un’udienza specifica per la conciliazione, oppure può essere proposto oralmente dal giudice durante un’udienza e registrato nel verbale. La ratifica dell’accordo nel verbale di udienza lo rende un titolo esecutivo ai sensi dell’art. 474 c.p.c.

Una volta raggiunto l’accordo, le possibili conseguenze processuali includono la pronuncia di estinzione del giudizio, come nel caso di rinuncia agli atti da parte delle parti (art. 306 c.p.c.) o l’abbandono della causa, che porta a un’ordinanza di cancellazione ex art. 309 c.p.c. La normativa distingue due tipologie di proposte che il giudice può formulare, offrendo così un quadro flessibile per la risoluzione delle controversie: una proposta conciliativa e una transattiva.

La proposta transattiva, basata sull’articolo 1965 del Codice Civile, è di natura contrattuale e implica concessioni reciproche tra le parti per risolvere una controversia già in corso. La proposta conciliativa, invece, può variare notevolmente nei contenuti, come una rinuncia o un riconoscimento formalizzato in un verbale, e può andare oltre le richieste specifiche delle parti, mirando a soddisfare gli interessi in gioco.

La proposta transattiva ha origini negoziali e, una volta raggiunto l’accordo, può portare a un provvedimento giudiziario che conclude il processo. È fondamentale che il giudice instauri un rapporto di fiducia con le parti e faciliti un dialogo costruttivo per risolvere il conflitto. Il successo della proposta dipende dalla capacità del giudice di adattare la proposta alle specificità del caso; proposte troppo ampie tendono a fallire.

La sensibilità del giudice, inclusa la capacità di comprendere le dinamiche psicologiche dei contendenti, è cruciale. Il giudice deve assumere un ruolo di mediatore, non solo formalmente ma anche empaticamente, per guidare le parti verso una soluzione condivisa. La proposta conciliativa non deve essere vista come una sentenza preliminare, ma piuttosto come un mezzo per raggiungere un accordo vantaggioso per entrambe le parti, soprattutto in termini di riduzione dei tempi processuali.

L’obiettivo principale di questo strumento è aiutare le parti a raggiungere un accordo negoziale per una risoluzione pacifica del conflitto. A tal fine sarà necessaria la piena collaborazione degli avvocati, aperti a possibili soluzioni prospettate dal Giudice.

Inoltre, per alcuni studiosi, anche se la proposta conciliativa non porta alla risoluzione del caso, può comunque escludere la possibilità per le parti che l’hanno rifiutata di richiedere un indennizzo secondo la legge Pinto (legge n. 89/2001), nel caso in cui il processo superi il termine di durata ragionevole. Infatti, il rifiuto di una proposta “ragionevole” potrebbe essere apprezzata dal Giudice nominato nel procedimento ex L. Pinto come causativa del protrarsi del processo, o peggio, come mera strategia processuale per non addivenire ad un giudicato.

Ulteriormente, già acquisita alla giurisprudenza della Corte di Cassazione, l’interpretazione secondo cui, in tema di equa riparazione ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89, l’esistenza di un danno non patrimoniale può essere esclusa nelle ipotesi in cui il protrarsi del giudizio appaia rispondente ad uno specifico interesse della
parte, il che appunto avviene, ad esempio, quando la lite sia stata gestita fuori del processo, conclusosi con l’estinzione per inattività delle parti a seguito di transazione stragiudiziale, lì dove l’interesse delle parti sia stato quello alla perdurante pendenza del giudizio per coltivare la prospettiva della definizione in sede stragiudiziale (Cass. Sez. 1, 13/04/2006, n. 8716; Cass. Sez. 1, 11/03/2005, n. 5398).
(cfr. Civile Sent. Sez. 2 Num. 13366 Anno 2022 – pubb 28/04/2022)

Questo orientamento può essere ad ogni modo controbilanciato dall’evidenza per cui l’articolo 2, comma 2 sexies, lettera c, della legge numero 89 del 2001, presenta – dalla semplice lettura – un ambito di applicazione limitato.

Ed, invero dalla lettura di alcuni ricorsi ritenuti, inammissibili e/o non accolti, quello che può “aver giocato a sfavorevolmente”, oltre una visione dell’organo giudicante, potenzialmente “severa” del dato normativo, può essere stata la non puntuale valorizzazione in sede di redazione del ricorso ex L. Pinto, dell’iter del processo presupposto, ad esempio rispetto ad una intensa attività (transattiva) extraprocessuale, in ragione del quale il Giudice di merito ha potuto realizzato il legittimo convincimento, per “presunzioni semplici”, di trovarsi dinanzi o ad una strategia processuale dei procuratori tesa a protrarre oltre ragionevolezza i termini di definizione del giudizio o, peggio, un disinteresse alla coltivazione del processo, poi definitosi per “stanchezza” delle parti ed abbandono.

Quello che appare certo è che il dato legislativo – art. 2, comma 2-sexies, lettera c), della legge n. 89 del 2001 – stabilisce una presunzione legale di non esistenza di pregiudizio causato dalla durata irragionevole di un processo – in SOLI due casi specifici: primo, quando un processo si conclude per rinuncia secondo l’articolo 306 del codice di procedura civile; secondo, quando si estingue per inattività delle parti, come previsto dall’articolo 307 dello stesso codice.

È importante, quindi, sottolineare che non vi è alcun riferimento all’ipotesi contemplata dall’articolo 309 del codice di procedura civile. Così come parimenti non vi possa essere alcun tipo di preclusione in ordine ad una conciliazione o transazione intervenuta ai sensi dell’art 309 bis c.p.c. Quest’ultimo articolo riguarda una situazione completamente diversa, ovvero l’estinzione improvvisa di un processo a causa della mancata presenza delle parti in due udienze consecutive. Questa estinzione, resa definitiva dalla modifica apportata al primo comma dell’articolo 181 del codice di procedura civile dal Decreto Legge numero 112 del 25 giugno 2008, comporta la rimozione della causa dall’elenco delle udienze.

Pertanto, l’articolo 309 del codice di procedura civile descrive un caso di estinzione immediata del processo, che non può essere considerato equivalente, ai fini dell’applicazione della cosiddetta “Legge Pinto” (legge per il risarcimento del danno da irragionevole durata dei processi), alle situazioni previste dagli articoli 306 e 307. La particolarità dell’estinzione ai sensi dell’articolo 309 risiede nel fatto che essa è legata esclusivamente alla mancata partecipazione delle parti a due udienze consecutive, indipendentemente dalla volontarietà dell’assenza o dall’omissione di specifici adempimenti richiesti dall’articolo 307.

Ulteriormente, l’Ordinanza n. 10336 del 2020, evidenzia quanto segue: “…la circostanza che le parti siano pervenute ad una conciliazione giudiziale (costituente la causa dell’estinzione del giudizio) dimostra in re ipsa che, fino al momento della conclusione di detta transazione, il contrasto tra le parti sussisteva e, dunque, sussisteva l’interesse delle stesse parti ad una pronuncia giudiziale su tale contrasto. Questa Corte ha, infatti, ripetutamente affermato che in materia di equa riparazione per durata irragionevole del processo, la dichiarazione di perenzione del giudizio, anche da parte del giudice amministrativo, non consente di ritenere insussistente il danno per disinteresse della parte a coltivare il processo, in quanto in tal modo verrebbe a darsi rilievo ad una circostanza sopravvenuta – la dichiarazione di estinzione del giudizio successiva rispetto al superamento del limite di durata ragionevole del processo. In definitiva, l’assunto della corte territoriale, che appare fare riferimento alla presunzione di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2 sexies, lett.c), che ritiene l’estinzione del giudizio, seppur determinata da conciliazione giudiziale, causa del disinteresse delle parti, risulta apodittico, là dove omette di motivare in punto di permanenza dell’interesse delle parti ad una pronuncia giudiziale sul loro contrasto fino al momento in cui esse si risolsero a comporre tale lite in via transattiva”.

Per converso alcuni provvedimenti della Corte di Cassazione (cfr. Civile Sent. Sez. 2 Num. 13366 Anno 2022) riportano il principio per cui, “proprio perché l’art. 2, comma 2-sexies, della legge n. 89 del 2001, introdotto dalla legge n. 208 del 2015, contempla un elenco di presunzioni iuris tantum di insussistenza del pregiudizio da irragionevole durata del processo, le ipotesi presentate nel ricorso costituiscono prova “completa”, alla quale il giudice di merito può legittimamente ricorrere, anche in via esclusiva, salvo pur sempre il limite della motivazione del proprio convincimento, nonché quello dell’esame degli eventuali elementi indiziari contrari al fatto ignoto dell’inesistenza del pregiudizio da irragionevole durata del processo, che si pretende legislativamente di desumere tramite l’allestita presunzione. L’accertamento dell’esistenza, sufficienza e rilevanza della prova contraria, che consenta il superamento delle presunzioni di insussistenza del pregiudizio da irragionevole durata del processo, di cui all’art. 2, comma 2- sexies, implica una tipica indagine di fatto, istituzionalmente attribuita dalla legge al giudice di merito, ma pur sempre sindacabile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360, comma
1, n. 5, c.p.c. (Cass. Sez. 2, 10/10/2019, n. 25542).”

In conclusione negli ultimi anni è possibile apprezzare una interpretazione più “severa” del dato normativo da parte delle Corti, soprattutto in presenza di Ricorsi ex L. Pinto ove non vengono valorizzate efficacemente le ragioni causative della lungaggine del processo, doverosa, a maggior ragione, in presenza di contenzioni definiti mediante conciliazioni e transazioni, in presenza delle quali non è assolutamente negato il diritto ma ove è necessaria una ancor più attenta valutazione di opportunità.

Legge Pinto l’erede ha diritto a conseguire, “pro quota” e “iure successionis”, l’indennizzo maturato dal “de cuius”

Massima estratta:

La Corte stabilisce che, in caso di decesso di una parte in un giudizio civile, l’erede ha il diritto di ricevere, in qualità di successore, una quota dell’indennizzo maturato dal defunto per l’eccessiva durata del processo. Inoltre, l’erede ha diritto a un indennizzo proprio per l’ulteriore protrazione del processo a partire dal momento in cui assume formalmente il ruolo di parte nel giudizio. Questo diritto all’indennizzo si basa sul principio che l’erede subentra in un processo già caratterizzato da una durata irragionevole, ma può richiedere un indennizzo per la sofferenza morale dovuta all’irragionevole durata del processo solo dopo la sua formale costituzione come parte, secondo quanto stabilito dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

EstrattoOrd. Sez. 6 Num. 29448 Anno 2019

Questa Corte ha più volte espresso l’orientamento, al quale il collegio intende dare continuità, secondo cui, qualora la parte del giudizio civile presupposto sia deceduta, l’erede ha diritto a conseguire, “pro quota” e “iure successionis”, l’indennizzo maturato dal “de cuius” per l’eccessiva protrazione del processo, nonchè, “iure proprio”, l’indennizzo dovuto in relazione all’ulteriore decorso della medesima procedura, dal momento in cui abbia assunto formalmente la qualità di parte, ovverosia si sia costituito nel giudizio. Ed infatti, anche se la qualificazione ordinamentale negativa del processo, ossia la sua irragionevole durata, è stata già acquisita nel segmento temporale nel quale parte era il “de cuius” e permane altresì in relazione alla valutazione della posizione del successore – che subentra, pertanto, in un processo oggettivamente irragionevole -, quest’ultimo ha diritto all’indennizzo “iure proprio” solo per l’irragionevole durata del giudizio successiva alla propria rituale costituzione, la quale – come confermato dalla CEDU, con sentenza del 18 giugno 2013, “Fazio ed altri c. Italia” – è condizione essenziale per far valere la sofferenza morale da ingiustificata durata del processo, atteso che, nel processo civile, in ipotesi di morte della parte originaria, stante la regolamentazione di tale evento prevista nell’art. 300 c.p.c., non assume altrimenti rilievo la continuità delle rispettive posizioni processuali tra dante ed aventi causa, prevista dall’art. 110 c.p.c., se non dal momento, appunto, dell’effettiva costituzione degli eredi conseguente al decesso del primo (cfr. Cass. Sez. 6 – 2, 08/02/2017, n. 3387; Cass. Sez. 6 – 2, 03/02/2017, n. 3001; Cass. Sez. 6 – 2, 24/01/2017, n. 1785; Cass. Sez. 6 – 2, 20/11/2014, n. 24771; Cass. Sez. 2, 19/02/2014, n. 4003; Cass. Sez. 1, 07/02/2008, n. 2983).