Negli ultimi anni il sistema normativo italiano si è adeguato alla normativa europea, in un contesto di partecipazione attiva ad un processo di creazione di una Europa unita non solo dal punto di vista sociale ed economico, ma anche giuridico. Gli Stati europei, infatti, hanno dato vita, nel corso degli anni, non solo alla Unione Europea, ma anche ad una serie di organismi collaterali, tra cui possiamo richiamare il Consiglio d’Europa, il cui compito fondamentale è quello di diffondere la difesa dei diritti umani, delle democrazie e dello Stato di diritto. Ed è in seno allo stesso che viene proclamata la famosa CEDU – Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, che riconosce e garantisce a livello europeo i diritti fondamentali dell’uomo e la cui applicazione da parte di tutti gli Stati membri viene garantita dalla Corte Europea di Giustizia di Strasburgo.
Le sentenze della Corte sono vincolanti nei limiti del riconoscimento della normativa internazionale nell’ordinamento nazionale e, come ben sappiamo, l’Italia consente limitazioni di sovranità ai fini dell’applicabilità della normativa internazionale ed europea, che prevale su quella interna e a cui occorre conformarsi.
Entrando nello specifico del tema da trattare, tra i vari diritti importantissimi che la CEDU riconosce, richiamiamo l’art. 6 attraverso cui ogni cittadino può invocare la tutela giurisdizionale qualora venisse violato nel diritto alla ragionevole durata del processo: “Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti.”
In ossequio a quanto dettato dalla giurisprudenza europea, il nostro legislatore ha provveduto ad adeguarsi alla stessa, in primis, inserendo il richiamo del “giusto processo” nell’art. 111 Costituzione e, successivamente, ha emanato la Legge n. 89/2001, comunemente nota come Legge Pinto dal nome del suo estensore, posta a baluardo dell’equa riparazione per la durata irragionevole del processo.
Per anni, infatti, l’Italia ha subito continui richiami da parte della Corte EDU per non aver introdotto nel sistema uno strumento giuridico interno che potesse snellire la procedura per equa riparazione e che, al contempo, potesse garantire ai cittadini un mezzo celere ed efficace per ottenere un giusto indennizzo in seguito al perdurare di un processo oltre un ragionevole termine.
La Legge Pinto riconosce a chiunque sia parte di un processo, attore o convenuto, e che abbia subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto della violazione della CEDU, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’art. 6 della Convenzione stessa, il diritto ad una equa riparazione, determinata dal giudice ai sensi dell’art. 2056 del codice civile. In merito alla applicabilità della Legge Pinto, ormai è prassi consolidata che l’equa riparazione possa concernere sia un processo civile che un processo penale, così come un processo amministrativo, contabile o fallimentare.
Il processo tributario
Il nodo che oggi invece occorre sciogliere è la sua applicabilità nell’ambito del processo tributario.
È opportuno definire, in primis, questa tipologia di processo, specificando quali siano le materie oggetto del contendere: il contenzioso tributario, disciplinato dal D. Lgs. n. 546/1992, ha ad oggetto le controversie di natura tributaria che sorgono tra il cittadino – contribuente e l’amministrazione finanziaria, nella sua facoltà impositiva.
Si parla anche di giustizia tributaria per indicare i mezzi posti dall’ordinamento giuridico per tutelare le situazioni giuridiche dei soggetti contribuenti nei confronti della Pubblica Amministrazione, nella esplicazione della sua potestà di imposizione tributaria.
Le Commissioni Tributarie
Coinvolgendo la P.A., è chiaramente un ramo della giustizia amministrativa, affidata a Giudici Speciali, le Commissioni Tributarie, dinanzi alle quali è possibile proporre ricorso impugnando tali atti:
- l’avviso di accertamento del tributo o l’avviso di liquidazione dello stesso;
- il provvedimento che irroga le sanzioni;
- il ruolo e la cartella di pagamento e l’avviso di mora;
- il fermo di beni mobili registrati e l’iscrizione di ipoteca sugli immobili;
- il rifiuto della restituzione di tributi, sanzioni pecuniarie ed interessi;
- il diniego o la revoca di agevolazioni e qualsiasi altro atto per cui la legge prevede l’impugnabilità dinanzi alle commissioni tributarie.
La specificazione è importante per comprendere, a differenza del processo civile o penale, quando è possibile richiedere l’equo indennizzo per durata irragionevole del processo tributario.
È vero, infatti, che anche quest’ultimo potrà dilungarsi oltre un termine considerato ragionevole dalla Legge, e che ricordiamo essere di 3 anni per il processo di primo grado, 2 anni per il secondo, 1 per il processo in Cassazione e, in ogni caso, 6 anni per il processo considerato nel suo complesso, gravami inclusi.
Ma se questo è vero, in esame ci sono degli interessi non completamente privatistici: avremo dal lato dell’attore, in genere, il contribuente privato, e dalla parte del convenuto, chiamato in giudizio, avremo la Pubblica Amministrazione.
Oggetto del contendere sarà un atto che, come già anticipato, è simbolo della potestà impositiva dello Stato: sarà proprio questo il discrimine che ha contrassegnato la giurisprudenza europea, prima, e quella nazionale dopo, nel negare la tutela ex Legge Pinto alle parti di un processo tributario.
Vediamone gli aspetti fondamentali.
Già la Corte di Strasburgo, con due sentenze importanti, ha dubitato del riconoscimento, a coloro che abbiano subito la lungaggine processuale in un giudizio tributario, di poter chiedere l’equo indennizzo, nonostante il vigore dell’art. 6 della CEDU.
Si richiama, dunque, la famosa Sentenza Ferrazzini del 2001 in cui, in ossequio al suddetto articolo, la Corte Europea ha sostenuto che l’equo indennizzo spetta a tutti coloro che subiscono un pregiudizio in quei processi che vertono su una accusa penale o in cui si discute di un diritto o dovere di carattere civile, escludendo, così, da questo ambito le obbligazioni tributarie, oggetto di giustizia tributaria, che hanno sì contenuto patrimoniale, ma si caratterizzano per essere dei “doveri civici imposti in una società democratica”.
Le obbligazioni patrimoniali nei confronti dello Stato devono, dunque, essere considerate di diritto pubblico poiché provengono da una imposizione, quella tributaria, frutto di una potestà pubblica: “la materia fiscale rientra ancora nell’ambito delle prerogative del potere di imperio, poiché rimane predominante la natura pubblica del rapporto tra il contribuente e la collettività”.
Orientamento confermato da una seconda Sentenza, Faccio c/ Italia del 2009, in cui la Corte CEDU ribadisce l’estraneità della Legge Pinto al processo tributario. Un orientamento che si consolida nel tempo, nonostante ci sia una flessione in merito all’applicazione di sanzioni tributarie caratterizzate da una tale afflittività e valenza punitiva, da essere paragonate a quelle penali: solo in questo caso, la Corte di Strasburgo ha riconosciuto l’equiparazione del processo tributario a quello penale, consentendo l’equa riparazione nel caso di prolungato e irragionevole giudizio.
L’orientamento giurisprudenziale della Corte EDU ha trovato pieno riconoscimento e conferma anche nel nostro ordinamento: la Suprema Corte di Cassazione più volte ha ribadito, sulla scia giurisprudenziale comunitaria, la non estensibilità dell’art. 6 CEDU alle controversie tra il cittadino privato contribuente e il Fisco, poiché il processo tributario ha ad oggetto provvedimenti impositivi, l’applicazione di tributi o, in ogni caso, atti che hanno origine da doveri pubblici.
Anche a tal proposito, diverse sono le Sentenze della Corte di Cassazione che mettono un punto preciso alla questione dirimente: si richiama, tra le altre, la Sentenza n. 16212/2012 con cui la Cassazione sottolinea come ad essere “meritevoli di tutela sono i diritti e i doveri di carattere civile di ogni persona, ma non le obbligazioni di natura pubblicistica, pur potendo applicare la Legge n. 89/2001 alle richieste di rimborso di somme, rifluenti nell’area delle obbligazioni privatistiche, o anche le pretese tributarie dell’amministrazione qualora siano connesse a sanzioni, che in questo caso sono suscettibili di rientrare nell’art. 6 Cedu”, così come la Sentenza n. 4282/2015 in cui si ribadisce che “la Legge Pinto, che prevede l’indennizzo per l’irragionevole durata del processo, non si applica nel caso di giudizio tributario, salvo che la controversia non verta sulle sanzioni fiscali”.
A ben vedere, la preclusione di operatività della Legge Pinto non è assoluta poiché alcune eccezioni consentono, in determinati e limitati casi, di poter effettuare la richiesta di risarcimento per irragionevole durata del processo: l’art. 6 CEDU potrà essere applicato, come già anticipato, solo se la sanzione tributaria è assimilabile a quella penale e solo se al centro del provvedimento, oggetto del giudizio, ci siano le pretese del contribuente che non investono la determinazione del tributo (oggetto di potestà di imperio), ma solo aspetti consequenziali, o le richieste di rimborso di somme.
Ad esempio, la Sentenza della Corte di Cassazione n. 13322/2012 afferma che “l’equa riparazione può essere richiesta anche con riguardo a controversie del giudice tributario che siano riferibili, in realtà, alla materia penale, da intendere come comprensiva delle controversie relative all’applicazione di sanzioni tributarie, se esse, per la gravità e secondo un accertamento di fatto insindacabile in sede di legittimità, risultino connotate da un carattere di afflittività a tal punto significativo, da farle apparire alternative a una sanzione penale ovvero a una sanzione che, in caso di mancato adempimento, sia commutabile in una misura detentiva”.
Il problema che si pone, in tal caso, è il contrasto giuridico che sorge tra il mancato riconoscimento al cittadino dell’equo indennizzo, in caso di violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, ex art. 6 CEDU, nell’ambito di un giudizio tributario e il principio del “giusto processo” ex art. 111 Costituzione, che include, per gioco di forza, anche il processo tributario.
Contrasto che la Cassazione dirime affermando che il principio del giusto processo, di cui è figlio il diritto alla ragionevole durata del processo, coinvolge non solo le parti del giudizio di cui si discute la perdurante e illegittima durata, ma il sistema normativo nel suo complesso e, dunque, il giudice nella interpretazione delle norme e nella funzione acceleratoria del processo svolto dinanzi a lui, così come il legislatore ordinario, che dovrà adottare degli adeguati strumenti normativi, atti a tutelare le parti in causa dai pregiudizi subiti da un processo lungo e a garantire la celerità della giustizia.
Tra tutte, si richiama la Sentenza n. 1540/2007: “il principio costituzionale di ragionevole durata del processo trova applicazione anche nel contenzioso tributario, senza che assuma alcun rilievo, in contrario, l’inapplicabilità al processo tributario della disciplina in materia di equa riparazione: esso, infatti, si rivolge non soltanto al giudice quale soggetto processuale, in funzione acceleratoria, ma anche e soprattutto al legislatore ordinario ed al giudice quale interprete della norma processuale, rappresentando un canone ermeneutico imprescindibili per una lettura costituzionalmente orientata delle norme che regolano il processo, nonché a tutti i protagonisti del giudizio, ivi comprese le parti, le quali, soprattutto nei processi caratterizzati dalla difesa tecnica, debbono responsabilmente collaborare a circoscrivere tempestivamente i fatti effettivamente controversi”.
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Durante il primo colloquio valuteremo l’effettiva possibilità di ottenere il risarcimento previsto dalla legge Pinto e/o ricevere informazioni al riguardo.
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