Il nostro sistema giuridico si è particolarmente evoluto nel corso degli ultimi anni, soprattutto in considerazione delle nuove esigenze sociali e giuridiche che sono emerse e alla evoluzione storico/normativa che viviamo costantemente. Un ordinamento giuridico deve, infatti, costantemente ascoltare i problemi e le richieste dei suoi consociati e deve progredire di pari passo per evitare di diventare anacronistico e inadatto a tutelare le situazioni giuridiche che, man mano, si presentano al vaglio.
Tra le situazioni giuridiche che hanno richiesto un intervento legislativo al fine di tutelare le posizioni sottostanti, rientra indubbiamente quella della lungaggine giudiziaria: il nostro sistema giustizia ha visto sempre più frequentemente il prolungarsi di processi oltre ogni ragionevole e legittima aspettativa, causando danni alle parti in causa.
Gli esempi sono diversi: come non pensare ai lunghi processi civili, che vedono i difensori e i giudici alternarsi in udienze decennali, così come quei processi penali che spesso si chiudono per intervenuta prescrizione del reato, a seguito del decorso del tempo.
Uno strumento attivato al fine di porre un margine a situazioni similari è stato, in primis, dettato dalla famosa Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali (c.d. CEDU), e dalla Corte Europea di Strasburgo, sorta per applicare la CEDU e per tutelarne le violazioni. Nel merito, si richiama l’art. 6 il quale annuncia un diritto fondamentale per tutti coloro che siano parti di un processo: “ogni persona ha diritto a che la causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge”.
Si tratta del c.d. procedimento di equa riparazione, posto a tutela di un sistema normativo certo e celere, e che consente di poter invocare il diritto alla ragionevole durata del processo: questo diritto, inizialmente, poteva essere invocato solo dinanzi alla Corte di Strasburgo, unico giudice legittimato a conoscere delle istanze dei cittadini europei lesi dalle lungaggini processuali; successivamente, il carico giudiziario insostenibile per la Corte e le continue e ripetute violazioni degli Stati membri, Italia compresa, relative all’adeguamento della normativa interna a quella europea, hanno condotto ad una riforma generalizzata.
Il legislatore italiano, più volte richiamato, si è adeguato alle denunce della giurisprudenza europea attraverso l’introduzione di uno strumento giuridico ad hoc, del tutto interno: la Legge n. 89 del 2001, definita Legge Pinto, consente a tutti coloro che siano parte di un processo civile, penale o amministrativo, siano essi attore o convenuto, di poter richiedere e ottenere una equa riparazione, nel caso risulti danneggiato dalla durata eccessiva e irragionevole dello stesso.
In via generale, si può affermare che questa garanzia processuale consente di chiedere il ristoro dei danni subiti nell’arco di un processo lungo ed estenuante, danni che potranno essere sia patrimoniali, come le spese di giustizia e gli oneri processuali, sia non patrimoniali, come quelli derivanti dalla tensione, dallo sgomento, dall’ansia di essere coinvolti in un giudizio.
Qualora il processo di cui si è parte, quindi, perduri oltre un determinato limite, stabilito per legge, sarà possibile chiedere un giusto indennizzo per il pregiudizio subito. Si tratta di un diritto azionabile per qualsiasi tipologia di processo: può trattarsi di un processo civile, di un processo penale o amministrativo; è applicabile, altresì, al processo tributario, esecutivo e fallimentare.
Per poter accedere al meccanismo risarcitorio, devono ricorrere tre espresse condizioni:
- Ci deve essere una irragionevole durata del processo: come appena specificato, il processo deve superare un certo limite legale per poter richiedere l’equo indennizzo; la durata dello stesso si considera irragionevole se supera i 3 anni per il giudizio di primo grado, 2 anni per quello di secondo grado, 1 anno per il processo dinanzi alla Corte di Cassazione. In ogni caso, si considera irragionevole la durata di un processo che superi i 6 anni, considerando tutti i gradi di giudizio;
- La parte processuale deve aver subito un danno, patrimoniale e non, in seguito alla eccessiva durata del giudizio;
- Il danno di cui si invoca l’indennizzo deve essere conseguenza diretta ed immediata della durata irragionevole del processo, richiedendo così la presenza del nesso di causalità.
La domanda per ottenere l’equo indennizzo deve essere proposta alla competente Corte di Appello, nella persona del Presidente, attraverso l’assistenza di un difensore competente e il soggetto legittimato ad agire è colui che è definibile come “parte processuale” del giudizio presupposto: potrà sicuramente essere la persona fisica di un processo, quindi attore o convenuto quale parte processuale costituita in giudizio e che subisce un pregiudizio derivante dalla lungaggine processuale.
La L Pinto si applica alle società
La giurisprudenza ha successivamente accostato alla persona fisica anche la persona giuridica, anch’essa parte processuale costituita, al fine di poter richiedere l’equa riparazione: anche le società possono, in effetti, subire danni per l’eccessiva durata del processo e questo le include nel novero dei soggetti legittimati ad agire.
Procedure concorsuali
Questo punto è particolarmente importante nel momento in cui si comprende l’istituto della equa riparazione in connessione con le procedure concorsuali e fallimentari.
Vogliamo, in primis, affermare che le procedure concorsuali si caratterizzano per cercare una soluzione allo stato di crisi vissuto da una impresa commerciale e, quindi, regolamentare la situazione debitoria dell’imprenditore, attraverso un piano di riparto dei crediti tra i vari creditori.
Le procedure vigenti nel nostro ordinamento sono, oltre a quella più drastica del fallimento, il concordato preventivo, il concordato fallimentare, la liquidazione coatta amministrativa.
Si tratta di procedure alquanto lunghe e annose, a seconda del numero dei creditori che intervengono nel procedimento al fine di tutelare il proprio credito, della situazione debitoria da regolare, delle varie istanze da regolamentare.
I nostri Tribunali, compreso quello di Bari, conoscono bene la pendenza delle procedure e il procrastinarsi delle stesse nel corso degli anni, dando vita ad un carico giudiziario perdurante, in alcuni casi, anche per decenni.
Una situazione di incertezza giuridica che vede come protagonisti non solo l’impresa debitrice e i rispettivi creditori, ma anche un soggetto terzo che interviene nella procedura su nomina del Tribunale, il curatore fallimentare, per gestire e amministrare, in qualità di professionista, il patrimonio fallimentare.
Entrando nel merito di tali procedure, la Legge Pinto inizialmente nulla ha previsto a tal proposito; per poter, dunque, applicare favorevolmente questo strumento di tutela anche a coloro che, coinvolti in lunghe procedure concorsuali, avessero subito il danno da durata irragionevole del processo, la giurisprudenza si è adoperata per interpretare e applicare al meglio la legge, estendo analogicamente i suoi principi.
Il ruolo fondamentale della Suprema Corte di Cassazione, attraverso varie sentenze adottate nel corso degli ultimi venti anni, ci ha concesso di colmare alcune importanti lacune; ad esse ha fatto seguito un secondo intervento normativo, la Legge n. 134/2012 che, oltre a prevedere la diretta applicabilità della procedura di equa riparazione anche alle procedure fallimentari, ha introdotto il comma 2bis all’articolo 2, prevedendo espressamente che “si considera rispettato il termine ragionevole se il procedimento di esecuzione forzata si è concluso in tre anni e se la procedura concorsuale si è conclusa in sei anni”.
Dalla lettura si evince, quindi, quale sia il termine da considerarsi come limite per la conclusione di una procedura fallimentare o concorsuale, superato il quale si potrà richiedere il risarcimento del danno per eccessiva durata del giudizio.
Null’altro affermando la normativa in vigore, è opportuno citare la elaborazione giurisprudenziale e dottrinale che ci ha concesso di avere un quadro più chiaro dell’applicabilità della Legge Pinto alle suddette procedure.
Tra i punti fondamentali che occorre esaminare, citiamo prima di tutto la legittimazione ad intraprendere l’azione al fine di ottenere il giusto indennizzo: chi deve presentare ricorso alla competente Corte di Appello? Nessun dubbio, come dicevamo in precedenza, sorge in merito all’imprenditore – persona fisica che subisce la lungaggine della procedura concorsuale.
Il problema, in passato, si è posto per la persona giuridica – società commerciale, soprattutto per quanto concerne il risarcimento del danno non patrimoniale eventualmente subito.
Nulla quaestio, infatti, in merito ai pregiudizi patrimoniali che possano sorgere nel corso della procedura, facilmente accertabili e documentabili e, soprattutto, attribuibili sia alle persone fisiche che giuridiche.
Ma è pur vero che questa tipologia di procedure coinvolge frequentemente imprese commerciali, nella figura di società di persone o di capitali. In tal caso, chi deve invocare il danno? E quale danno è invocabile? La lacuna normativa è stata colmata dalla Corte di Strasburgo (Sentenza del 6 aprile 2000), che ha considerato ammissibile la domanda di equa riparazione anche per i danni non patrimoniali, sia quelli derivanti dal patema d’animo o dal pregiudizio psicologico in costanza di processo, che quello relativo al danno di immagine subito dalle società nel contesto socio-lavorativo.
I soggetti legittimati ad agire saranno, dunque, tutti coloro preposti alla gestione della società, gli amministratori, i membri dei consigli direttivi.
Da ciò deduciamo che, nell’ambito di una procedura fallimentare, sarà sicuramente legittimato attivo il fallito, nonostante egli non sia parte processuale attiva: nel corso delle procedure concorsuali, come si anticipava, parte in causa diventa il curatore, che opera per conto dell’imprenditore fallito.
Nonostante ciò, il fallito potrà ugualmente proporre domanda di giusto indennizzo per i danni patrimoniali e non, poiché la giurisprudenza ha sottolineato la natura strettamente personale di tale diritto.
Altra questione nodale è quella relativa al termine per la ragionevole durata del processo: quest’ultimo inizia a decorrere, per i creditori inseriti in una procedura concorsuale, non dalla data di deposito della domanda di ammissione allo stato passivo, ma dalla data effettiva di ammissione del loro credito al passivo, perché solo da quel momento i creditori intervenuti avranno reale contezza dei pregiudizi subiti per la irragionevole durata della procedura.
La Cassazione, con l’Ordinanza n. 21200 del 27/08/2018, ha statuito che per i creditori intervenuti risultano irrilevanti i momenti pregressi alla loro concreta ammissione al passivo, poiché solo a partire da questo momento potranno sorgere pregiudizi per loro.
Ancora, in merito alla durata del processo fallimentare, considerata ragionevole, diverse sono state le pronunce della Suprema Corte, le quali hanno sottolineato le difficoltà che si possono concretamente incontrare nell’ambito delle procedure e che non consentono di velocizzare i tempi.
È per questo che la Corte di Cassazione è intervenuta affermando il seguente principio: “la durata delle procedure fallimentari, secondo lo standard ricavabile dalle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo, è di cinque anni nel caso di media complessità e, in ogni, caso, per quelle notevolmente complesse – a causa del numero dei creditori, della particolare natura o situazione giuridica dei beni da liquidare (partecipazioni societarie, beni indivisi, ecc.), della proliferazione di giudizi connessi o della pluralità di procedure concorsuali interdipendenti – non può superare la durata complessiva di sette anni.” (Sentenza n. 8468/2012 e n.21849/2014).
Quindi, possiamo affermare che la durata considerata “ragionevole” per la conclusione di una procedura fallimentare è nella media di sei anni, a meno che la procedura non risulti particolarmente complessa.
Dal settimo anno in poi, quindi, i creditori così come il fallito imprenditore avranno diritto ad ottenere l’equa riparazione per irragionevole durata della procedura fallimentare.
Tra l’altro, nella durata complessiva delle procedure concorsuali occorre includere anche i tempi impiegati per la definizione di vicende processuali sorte e trattate in parallelo o incidentali, poiché inerenti tutte alla stessa procedura già in atto (Sentenza Corte di Cassazione n. 7/2019).
In merito all’onere di dimostrare il danno subito e di cui si chiede l’equa riparazione, la Corte di Cassazione ha sottolineato che il danno patrimoniale derivante dalla eccessiva durata della procedura fallimentare deve essere provato in concreto dall’istante, senza ch’egli possa beneficiare di presunzioni di ordine generale, poiché deve fornire la prova di uno dei fatti costitutivi della sua domanda.
Il creditore intervenuto con domanda di ammissione al passivo non può, quindi, lamentarsi genericamente della durata del processo, se dalla stessa non derivi un effettivo pregiudizio. A maggior ragione, se il creditore lamenti che, in seguito ad una procedura perdurata oltre il ragionevole termine, il debitore sia divenuto insolvente, dovrà dimostrare che tale circostanza ha compromesso definitivamente la soddisfazione del suo diritto di credito (Sentenza Corte di Cassazione n. 26166/2006).
Ancora, per quanto concerne l’importo da quantificare quale equo indennizzo, la Cassazione è intervenuta affermando quanto segue: “se è vero che il giudice nazionale deve, in linea di principio, uniformarsi a criteri di liquidazione elaborati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (di regola, non inferiore ad € 750,00 per ogni anno di ritardo, in relazione ai primi tre anni eccedenti la durata ragionevole, e non inferiore ad € 1.000,00 per quelli successivi) permane, tuttavia, in capo allo stesso giudice, il potere di discostarsene, in misura ragionevole, qualora, avuto riguardo alle peculiarità della singola fattispecie, ravvisi elementi concreti di positiva smentita di detti criteri, dandone motivazione adeguata” (Sentenza n. 17922/2010).
Da ciò si evince che il giudice adito possa valutare la quantificazione del danno anche in misura inferiore rispetto ai parametri europei, oscillando anche da un minimo di € 400,00 ad un massimo di € 800,00 per ogni anno che ecceda il limite di sei anni, così come ci sono state – prima della riforma Monti – sentenze che hanno previsto un risarcimento oscillante tra un minimo di € 500,00 ad un massimo di € 1.500,00 per ogni anno di ritardo.
Ricordiamo, ancora, che il ricorso alla competente Corte di Appello deve essere proposto nel termine di 6 mesi dalla data di chiusura del fallimento o delle altre procedure concorsuali, e non durante la pendenza delle stesse.
La responsabilità del Curatore Fallimentare
Da ultimo, occorre specificare la particolare posizione del curatore fallimentare: ribadiamo, infatti, che lo stesso è un libero professionista, nominato dal Giudice Istruttore nel corso della procedura concorsuale al fine di gestire il patrimonio del fallito.
Egli può essere considerato il vero e proprio fulcro della procedura e potrebbe rivelarsi negligente, allungando oltremodo la tempistica processuale.
Qualora, dunque, si innesti un ricorso per equa riparazione, il curatore tacciato di non aver dato il necessario impulso alla procedura fallimentare, ben potrebbe rispondere come responsabile dell’eccessiva durata del processo.
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Se ritiene di aver subito o di subire un procedimento dalla durata irragionevole, ed hai intenzione di proporre ricorso per ottenere il dovuto risarcimento, chiama il numero verde 800-973078. Riceviamo presso lo Studio Legale in Bari.
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Durante il primo colloquio valuteremo l’effettiva possibilità di ottenere il risarcimento previsto dalla legge Pinto e/o ricevere informazioni al riguardo.
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