Cosa è possibile fare, oggi, al fine di tutelare la posizione di coloro che subiscono i danni derivanti dalle lungaggini della giustizia?
Il nostro ordinamento, fino a circa venti anni fa, era sprovvisto di un rimedio giudiziario tutto interno, per tutelare tutti coloro che lamentavano i danni subiti in seguito a quei processi che duravano decenni, che non davano alcuna certezza in merito al loro esito, con notevoli conseguenze non solo patrimoniali, ma anche morali. Basti pensare alle spese di giustizia che occorre affrontare per sopportare diversi gradi di giudizio, così come è indispensabile cimentarsi nello stato di turbamento e di angoscia dei soggetti coinvolti in un processo, in attesa di avere un responso e che vedono trascorrere il tempo inesorabilmente. È una situazione che genera, quindi, un nocumento sia economico che non, e che merita di essere risarcito affinché si ristabilisca un principio fondamentale, quello di una giustizia sana, equilibrata, equa e ben amministrata.
Già la nota Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, conosciuta meglio come CEDU, elaborata negli anni ’50, contiene un richiamo ben preciso al diritto ad una equa riparazione per mancato rispetto di un ragionevole termine processuale: l’art. 6 costituisce, infatti, il fondamento di una prassi giuridica che ha preso piede negli Stati firmatari e che ha consentito alle persone fisiche di rivolgersi alla Corte Europea di Strasburgo, posta a presidio della CEDU, al fine di ottenere una sentenza favorevole al riconoscimento del relativo danno.
La Corte si è ritrovata, in tal modo, sommersa dalle richieste risarcitorie, arrivando ad essere oberata e a non riuscire a gestire il relativo contenzioso, allarmando così le autorità nazionali e invocando uno strumento che si ponesse a livello interno, per porre un freno e un filtro alle varie domande proposte.
Il nostro ordinamento ha risposto positivamente a questo monito solo nel 2001 con la Legge n. 89, la c.d. Legge Pinto, che ha introdotto un rimedio giudiziario interno per la equa riparazione, confinando il ricorso alla Corte di Strasburgo come ultima istanza.
La Legge Pinto consente oggi di adire la competente autorità giudiziaria per ottenere il ristoro del danno prodotto dalla violazione dell’art. 6 CEDU, che richiamiamo integralmente: “Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti.”
Ma, in concreto, come e a chi si presenta la domanda per equa riparazione?
Chi si sente leso, in un processo definito “presupposto”, da una eccessiva dilazione temporale del giudizio, deve presentare un ricorso al Presidente della Corte di Appello del distretto in cui ha sede il giudice del processo presupposto: l’art. 3 della Legge Pinto, modificata in ultima battuta dalla legge di stabilità del 2016, ha eliminato la precedente previsione, snellendo la procedura di attivazione dell’equo indennizzo. L’articolo in esame esplicita il procedimento in concreto: il ricorso deve essere presentato rispettando l’art. 125 del codice di procedura civile, il quale indica tutte le formalità da seguire affinché il contenuto e la sottoscrizione degli atti di parte siano esatti. Insieme al ricorso, la parte deve anche allegare una serie di documenti che comprovano la pendenza del processo sotto accusa:
- l’atto di citazione, il ricorso e tutti gli altri atti di parte attinenti al procedimento presupposto;
- i verbali di causa e i provvedimenti del giudice;
- l’eventuale provvedimento conclusivo del giudizio stesso.
Entro 30 giorni dal deposito del ricorso da parte del soggetto che si ritiene leso, il presidente della corte di appello, o un altro magistrato da lui designato, esamina il ricorso depositato e provvede sulla domanda di equa riparazione con l’emanazione di un “decreto”, che sarà comunicato alla competente cancelleria.
Tale decreto, che esamina la domanda nel concreto, potrà quindi accogliere o rigettare la richiesta di equo indennizzo e l’esito dell’esame dipende da una serie di presupposti, sia formali che sostanziali.
Esaminiamo le ipotesi.
Provvedimento di accoglimento della domanda
L’accoglimento della domanda presuppone la fondatezza della richiesta: il giudice esamina a fondo il ricorso per ottenere l’indennizzo per la ragionevole durata del processo e dovrà valutare una serie di requisiti per poter accordare la somma richiesta a titolo di risarcimento. In primis, è chiaro che il ricorrente avrà adottato tutti i “rimedi preventivi” richiesti dalla Legge Pinto a pena di inammissibilità della domanda di equa riparazione e diversificati a seconda della tipologia di processo pendente (civile, penale o amministrativo). Una volta proposto il ricorso e giunto all’esame del presidente della corte di appello competente, quest’ultimo dovrà esaminare il comportamento delle parti e dell’autorità giudiziaria nel corso del processo presupposto; la complessità del caso esaminato, che potrà aver richiesto maggior tempo; l’oggetto del procedimento e tutto ciò che possa essere utile al fine di definire la causa. L’indennizzo, infatti, è riconosciuto tenendo conto dell’esito del processo in cui si lamenta la violazione, del comportamento effettivo delle parti processuali, della natura degli interessi coinvolti o della rilevanza della causa trattata.
Se il giudice accoglie la domanda di equa riparazione, dovrà ordinare, attraverso l’adozione del decreto di accoglimento, all’amministrazione contro cui è stato sollevato ricorso, di pagare senza ulteriori termini la somma liquidata a titolo di indennizzo per violazione della ragionevole durata del processo.
A tal proposito, si ricorda che l’indennizzo viene determinato a norma dell’art. 2056 del codice civile che disciplina della valutazione dei danni: il presidente della corte di appello, nell’accogliere il ricorso, dovrà ordinare il pagamento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti dal soggetto ricorrente, prendendo in considerazione, per i primi, il danno emergente e il lucro cessante, o in via secondaria, dovrà valutarli in maniera equitativa. Il decreto, unitamente al ricorso presentato dalla parte lesa, dovrà essere notificato dunque al Ministro della giustizia, in caso di procedimenti del giudice ordinario; al Ministro della difesa in caso di procedimenti militari; al Ministro dell’economia e delle finanze per tutti gli altri casi. Il decreto di accoglimento deve anche essere notificato al procuratore generale della Corte di Conti ai fini dell’instaurazione di un giudizio di responsabilità erariale a carico del magistrato accusato di irragionevole termine processuale.
Dato che il procedimento dinanzi alla Corte di Appello si articola come un procedimento monitorio, la decisione sarà assunta in camera di consiglio, e non in pubblica udienza, sempre nel rispetto del principio di difesa e del contraddittorio. Il decreto di accoglimento ha sicuramente la forza decisiva di una sentenza, ma conserva la struttura del decreto: questo significa che avrà una motivazione sommaria ma completa di tutti i punti salienti della controversia esaminata; sarà, inoltre, immediatamente esecutivo, rispecchiando il tratto tipico della azione di condanna.
Provvedimento di rigetto della domanda
Da quanto detto, è lapalissiano che il presidente della corte di appello competente potrà procedere a respingere il ricorso in tali casi:
- i c.d. rimedi preventivi, richiesti dall’art. 1ter della L. n. 89/2001, non sono stati adeguatamente esperiti dalla parte processuale che lamenta la violazione del termine processuale: parliamo di tutte quelle istanze di accelerazione del processo presupposto, che variano a seconda della tipologia dello stesso, sia esso civile, penale o amministrativo; le suddette istanze devono essere proposte in pendenza del giudizio e consistono in attività che rendono il soggetto “leso”, parte diligente nel processo stesso, al fine di scongiurare le lungaggini processuali e il sorgere del danno;
- qualora, esaminando in concreto l’andamento del processo presupposto e la sua strutturazione, si evidenzino comportamenti processuali sia delle parti che del giudice tesi ad allungare oltremodo il giudizio; nel caso ci siano stati abusi processuali che abbiano comportato una dilazione dei tempi del procedimento; se la parte che ha agito o resistito in giudizio era consapevole della infondatezza della propria domanda;
- ancora, i commi 2sexies e 2septies dell’art. 2 della Legge Pinto prendono in considerazione altre ipotesi di rifiuto della domanda di equa riparazione: si pensi alla contumacia delle parti; alla intervenuta prescrizione del reato, in riferimento all’imputato; irrisorietà della pretesa o del valore della causa, da valutare anche considerando le condizioni personali delle parti; estinzione del processo in seguito ad inattività delle parti o in seguito alla loro rinuncia a proseguire, sottintendendo la mancata volontà di prolungare il giudizio; infine, qualora la parte abbia conseguito dei vantaggi patrimoniali superiori rispetto alla misura dell’indennizzo richiesto;
- ai sensi dell’art. 640 cpc, qualora il giudice ritenga insufficientemente giustificata la domanda presentata e la ritiene non accoglibile.
Quindi, i presupposti per il rigetto della domanda di equa riparazione sono sostanzialmente due: la sua inammissilità e la sua manifesta infondatezza. È opportuno richiamare, in tal caso, l’art. 5quater della Legge in esame, che prevede l’applicazione di sanzioni processuali a carico della parte soccombente nel giudizio di equa riparazione: il ricorrente, la cui domanda si riveli inammissibile o infondata, infatti, potrà essere condannato a versare alla cassa delle ammende una somma di denaro che può variare da un minimo di euro 1.000 ad un massimo di euro 10.000. Naturalmente, si tratta di strumenti sanzionatori posti in essere dal nostro legislatore onde evitare abusi processuali, comportamenti e atteggiamenti in mala fede, diretti e concreti a perpetrare oltremodo il processo, al fine di ottenere l’equo indennizzo.

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Durante il primo colloquio valuteremo l’effettiva possibilità di ottenere il risarcimento previsto dalla legge Pinto e/o ricevere informazioni al riguardo.
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