LEGGE PINTO: La legittimazione ad agire – Chi ha diritto

La Legge Pinto, n. 89/2001, ha introdotto, nel nostro ordinamento, un rimedio contro le storture della giustizia italiana, sorte in seguito alle lungaggini processuali. Un problema ben noto a tutti, quello del pregiudizio subito da un attore o un convenuto durante le fasi di un processo, nel caso in cui lo stesso si prolunghi per un periodo irragionevole, provocando danni sia materiali che morali.

Ricordiamo, prima di tutto, che il diritto ad avere un processo con una durata equa e ragionevole è previsto dalla Convenzione per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali, comunemente nota come CEDU, elaborata dal Consiglio d’Europa e firmata a Roma nel 1950; l’art. 6 della Convenzione è molto chiara nell’esplicitare questo diritto fondamentale, prevedendo così: “Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale deciderà sia delle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che le venga rivolta”.

Nonostante la vigenza della Convenzione suddetta, l’Italia, nel corso degli anni, è stata spesso censurata da parte della Corte Europea per i diritti umani, in quanto si sono riscontrate ripetute e costanti violazioni di questo diritto fondamentale per tutti coloro che intraprendevano un’azione giudiziaria. Per porre rimedio ai frequenti richiami e per assicurare che la giustizia italiana non diventi un eccessivo onere per coloro che vogliano tutelarsi giudizialmente, il nostro legislatore è intervenuto dando concreta attuazione alla Convenzione richiamata, sprovvista di uno specifico strumento applicativo fino al 2001, anno di adozione della famosa Legge Pinto.

Una legge che ha dato una svolta al nostro sistema, introducendo un rimedio tutto “interno” al sistema giudiziario italiano, ponendo accanto al ricorso diretto alla Corte Europea, utilizzato fino a quel momento e ora previsto come extrema ratio, un meccanismo di tutela diretto e nazionale che garantisca il rispetto dei termini di durata ragionevole dei processi, prevedendo il risarcimento in casa di lesione di tale diritto, con susseguente equa riparazione tramite indennizzo.

Occorre, quindi, partire dall’esame di questa legge per comprendere chi e come può agire per chiedere e ottenere il diritto all’equa riparazione per violazione del congruo termine processuale.

Sicuramente deve pendere un giudizio, sia esso civile, penale o amministrativo, che perduri da tempo e che abbia provocato un danno alla parte in causa, sia essa attore o convenuto: la Legge Pinto, infatti, è molto generica a tal proposito, facendo presumere che le lungaggini processuali causino un danno a prescindere dalla posizione processuale ricoperta, di torto o ragione che sia, ma richiama tutte quelle posizioni che subiscono dei nocumenti derivanti da un evolversi abnorme della situazione giudiziaria. Quindi, la legittimazione attiva a proporre domanda per ottenere l’equa riparazione spetta a tutti coloro che abbiano, nel giudizio presupposto (ossia il giudizio di cui si discute la durata e il danno conseguente), la funzione di “parte processuale”. Si tiene anche in considerazione la parte nei cui confronti la sentenza definitiva produrrà i suoi effetti: si tratta del concetto di parte in senso sia formale che sostanziale.

Non incide assolutamente sulla proposizione della domanda di equa riparazione l’esito del processo presupposto: ciò che la parte contesta non è la giustizia o meno della sentenza, e quindi la sua soccombenza rispetto al processo, ma la eccessiva durata dello stesso, che le ha provocato un notevole danno, materiale o meno. Il danno che si contesta è, quindi, ancorato ad un termine che si ipotizza ragionevole ed entro il quale dovrebbe concludersi un processo. Questo significa che è possibile proporre domanda di equa riparazione anche se il giudizio presupposto si sia concluso con una transazione finale oppure, nel caso di un giudizio penale, ci sia stata l’estinzione del reato per la prescrizione dello stesso in seguito al trascorrere del tempo.

Occorre inoltre specificare che la parte che può azionare il processo ex Legge Pinto, deve essere una parte processuale, cioè la causa sottostante deve riguardarla personalmente e non indirettamente, dovendo valutarsi i danni che essa stessa ha subito dalla durata irragionevole. Chiaramente nessun problema si pone nel caso in cui la parte sia una persona fisica: si tratta della persona che, attore o convenuto, sia stata citata o abbia citato in una causa civile o amministrativa, oppure, in una causa penale, deve trattarsi sempre di una parte processuale, che si sia costituita in giudizio, e dunque possiamo pensare al querelante o alla persona offesa dal reato che si siano costituiti parte civile nel relativo processo.

È implicito che per la semplice “persona fisica – parte processuale” sia più intuitivo comprendere il danno subito dalla irragionevole durata del processo: è la parte in causa che subisce tutti i danni materiali, derivanti dalle spese processuali e dai vari oneri legati alla giustizia, e i danni non patrimoniali, come quelli legati all’attesa di un esito positivo del processo, danni morali ed esistenziali.

Solo la parte in causa potrà, quindi, adire la competente autorità giudiziaria per lamentare la lesione del diritto riconosciuto e tutelato a livello internazionale e, oggi, anche costituzionale con il recepimento della CEDU e la modifica dell’art. 111 della nostra Costituzione. Ciò che sovviene alla nostra attenzione e che potrebbe presentare delle problematiche attiene, soprattutto, alle diverse tipologie di cause o di inconvenienti che potrebbero presentarsi nel corso di un giudizio.

Partendo dal presupposto che abbiamo già evidenziato il ruolo della persona offesa nell’ambito del processo penale, possiamo citare ulteriori casi espliciti per comprendere.

Molto discusso è stato il caso dei giudizi in cui è parte processuale non una persona fisica, bensì una persona giuridica: le società, ad esempio, siano esse di persone o di capitali. Chi sarà il soggetto legittimato a chiedere e ottenere l’equo indennizzo in tale ipotesi? E, soprattutto, può una società chiedere indennizzo per i danni non patrimoniali? Questa è stata una delle questioni più dibattute e su cui si è anche concentrata, in diverse sentenze, la nostra giurisprudenza. Indubbiamente anche la società, che sia parte processuale, risente dei tempi notevoli della giustizia, subendo così un danno patrimoniale. A lungo dibattuto è stato, invece, il risarcimento del danno non patrimoniale, proprio perché si dubitava della possibilità che una “costruzione giuridica” come quella della società, potesse patire dei danni morali in seguito al perdurare dei processi a suo carico o in cui è coinvolta. A tal proposito, in risposta al vuoto normativo e all’incertezza giuridica nazionale, è intervenuta la stessa Corte Europea, considerando ammissibile la domanda di equa riparazione, per le società, non solo per chiedere l’indennizzo dei danni patrimoniali, ma anche per quelli non patrimoniali, come il danno all’immagine subito dalla società, e dei danni morali come il turbamento e il pregiudizio psicologico subito in costanza di processo. Ovviamente, i soggetti legittimati ad intraprendere l’azione sono le persone preposte alla gestione della società o dell’ente, gli amministratori, membri dei consigli direttivi e tutti coloro che sono considerati direttamente lesi dalla durata irragionevole  all’immagine subito dalla società nel corso del procedimento giudiziario o il patema d’animo degli amministratori o dei soci, dovuto all’incertezza o al disagio di un processo di cui non si riesca a vedere la conclusione sperata. La legittimazione ad agire spetta sia nel caso di società commerciali che di società di persone.

Come conseguenza automatica del principio appena espresso, nel caso in cui ci trovassimo dinanzi ad una procedura fallimentare, sicuramente legittimato attivo a proporre richiesta indennitaria è il fallito, nonostante egli non sia parte attiva nel processo: il fallimento vede, infatti, parte in causa il curatore, per conto dell’imprenditore fallito; ma il fallito potrà avanzare ugualmente domanda di equa riparazione per i danni patrimoniali e non, in quanto essa si ritiene appartenente ai diritti di natura strettamente personale.

Nel caso in cui ci sia un giudizio intentato o in cui sia parte in causa il condominio, la legittimazione ad agire per ottenere l’equo indennizzo non può appartenere ai singoli condomini, ma spetta al solo condominio, nella persona dell’amministratore, che deve essere autorizzato da una apposita delibera dell’assemblea condominiale. I singoli condomini non sono, quindi, legittimati a chiedere il diritto all’equa riparazione nel caso in cui, nel processo presupposto, si sia costituito solo il condominio.

Un ulteriore caso che potrebbe destare problemi è quello che vede, come parte processuale, un minorenne. In tal caso, il minorenne è compiutamente rappresentato dai genitori o dal tutore e, quindi, gli stessi, debitamente costituiti in giudizio, potranno poi essere legittimati a chiedere la domanda di equo indennizzo. Ma cosa accade se nel corso del processo, il minorenne giunge a maggiore età? Per poter essere legittimato attivamente a proporre richiesta di risarcimento danni per irragionevole durata del processo, il neo-maggiorenne dovrà costituirsi in giudizio e, quindi, diventare egli stesso parte processuale, pena l’inammissibilità della sua domanda. Solo diventando, così, parte autonoma nel processo presupposto, potrà poi invocare il diritto all’equo indennizzo.

E, infine, un ultimo caso piuttosto annoso, che la giurisprudenza ha costantemente esaminato, è quello relativo agli eredi che subentrano al de cuius nell’ambito di un processo pendente. Fino a quando il de cuius è in vita, è chiaramente il legittimato ad agire. Ben può accadere, però, che nelle more del processo, soprattutto se molto lungo, alla sua morte subentrino i suoi eredi come parti in causa, con la prosecuzione del giudizio pendente. Occorre, infatti, distinguere due casi: nel caso in cui l’erede non subentri nella posizione processuale del suo dante causa, non diventa parte processuale e, quindi, non potrà essere in alcun modo legittimato attivo a poter chiedere eventuali risarcimenti, stante la sua estraneità al giudizio stesso e alle ripercussioni derivanti dalla sua irragionevole durata. Diverso è, invece, il caso in cui gli eredi subentrino, attraverso un atto di riassunzione o una citazione in causa, nella parte che spettava al de cuius nel processo: da questo momento, essi sono a tutti gli effetti delle parti processuali, ben potendo risentire dei danni patrimoniali e non, derivanti dalla lesione del diritto ex art. 6 CEDU. Ciò che conta, in effetti, ai fini della proposizione della domanda in esame, è la posizione processuale e il diretto coinvolgimento nel giudizio; prima di questo momento, l’erede potrebbe anche essere ignaro della pendenza di un processo o potrebbe anche aver rinunciato all’eredità, non potendo subentrare nella posizione del suo titolare. La Corte di Cassazione, anche recentemente, ha ribadito la necessità che gli eredi, ai fini della legittimazione attiva, si costituiscano in giudizio, sottolineando anche una differenza fondamentale tra i diritti di cui chiedere il ristoro. Il danno patrimoniale subito dal de cuius può essere richiesto anche dagli eredi in quanto entrerebbe a far parte del patrimonio ereditario; in merito ai danni morali subiti dal de cuius, invece, trattandosi di danni strettamente personali, non potranno essere richiesti in via successoria dagli eredi, a meno che gli stessi, a loro volta, non subiscano i pregiudizi derivanti dall’abnorme durata del processo pendente: solo per questi ultimi, potranno essere legittimati a ricorrere all’autorità giudiziaria.

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