Il nostro ordinamento, fino a circa venti anni fa, era privo di uno strumento concreto che tutelasse tutti coloro che, parti di un processo giudiziario, subissero irrimediabilmente dei danni in seguito al protrarsi oltre misura della situazione giudiziaria pendente. Siamo abituati, infatti, a sentir parlare di cause decennali, in cui le udienze si susseguono senza soluzione di continuità, i giudici si alternano e gli avvocati difensori spesso risultano stanchi dell’avvicendarsi giudiziario, senza ottenere un celere riscontro al loro lavoro.
È in un contesto come questo che le parti processuali, indipendentemente se siano attori o convenuti, possono facilmente lamentare pregiudizi derivanti dalla eccessiva tempistica processuale: si pensi alle spese di giustizia, che occorre sopportare per l’avvicendarsi dei diversi gradi di giudizio; agli oneri e alle parcelle professionali dei difensori coinvolti; ma altresì all’ansia, al turbamento, allo stato di angoscia di tutti coloro che restano in attesa di un responso e che subiscono il trascorrere del tempo. Una simile situazione, generatrice di un danno patrimoniale e non patrimoniale, richiede una tutela specifica, affinché si possa garantire una giustizia sana ed equa.
Lo strumento ci è stato offerto già con la Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, conosciuta meglio come CEDU, il cui art. 6 prevede il diritto ad ottenere una equa riparazione per il mancato rispetto di un ragionevole termine processuale: “Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti.”
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