L’estinzione del giudizio per accordo tra le parti non fa venir meno i presupposti della legge Pinto.
L’articolo 185-bis del Codice di Procedura Civile (c.p.c.) ha introdotto uno strumento di conciliazione che può essere utilizzato in vari contesti giuridici. Questo strumento è applicabile sia nei giudizi ordinari che riguardano diritti disponibili, sia nei procedimenti cautelari, e anche nei procedimenti sommari come previsto dall’articolo 702-bis.
La formulazione della proposta conciliativa da parte del giudice non è rigidamente definita dalla normativa, lasciando quindi spazio a un approccio flessibile e atipico. Interessante notare che la legge non richiede che tali proposte siano motivate, poiché la motivazione è generalmente associata alla possibilità di impugnazione dei provvedimenti giurisdizionali. In questo contesto, dato che la proposta conciliativa mira a concludere la lite, non sussiste generalmente un interesse delle parti all’impugnazione, a meno che non si tratti di questioni relative a diritti indisponibili.
Inoltre, per quanto riguarda le proposte formulate ai sensi dell’art. 185-bis c.p.c., è importante considerare la loro natura trilaterale, con il giudice che funge da facilitatore e ratificatore dell’accordo in caso di successo.
Il processo di conciliazione può essere formalizzato attraverso un’ordinanza che stabilisce un’udienza specifica per la conciliazione, oppure può essere proposto oralmente dal giudice durante un’udienza e registrato nel verbale. La ratifica dell’accordo nel verbale di udienza lo rende un titolo esecutivo ai sensi dell’art. 474 c.p.c.
Una volta raggiunto l’accordo, le possibili conseguenze processuali includono la pronuncia di estinzione del giudizio, come nel caso di rinuncia agli atti da parte delle parti (art. 306 c.p.c.) o l’abbandono della causa, che porta a un’ordinanza di cancellazione ex art. 309 c.p.c. La normativa distingue due tipologie di proposte che il giudice può formulare, offrendo così un quadro flessibile per la risoluzione delle controversie: una proposta conciliativa e una transattiva.
La proposta transattiva, basata sull’articolo 1965 del Codice Civile, è di natura contrattuale e implica concessioni reciproche tra le parti per risolvere una controversia già in corso. La proposta conciliativa, invece, può variare notevolmente nei contenuti, come una rinuncia o un riconoscimento formalizzato in un verbale, e può andare oltre le richieste specifiche delle parti, mirando a soddisfare gli interessi in gioco.
La proposta transattiva ha origini negoziali e, una volta raggiunto l’accordo, può portare a un provvedimento giudiziario che conclude il processo. È fondamentale che il giudice instauri un rapporto di fiducia con le parti e faciliti un dialogo costruttivo per risolvere il conflitto. Il successo della proposta dipende dalla capacità del giudice di adattare la proposta alle specificità del caso; proposte troppo ampie tendono a fallire.
La sensibilità del giudice, inclusa la capacità di comprendere le dinamiche psicologiche dei contendenti, è cruciale. Il giudice deve assumere un ruolo di mediatore, non solo formalmente ma anche empaticamente, per guidare le parti verso una soluzione condivisa. La proposta conciliativa non deve essere vista come una sentenza preliminare, ma piuttosto come un mezzo per raggiungere un accordo vantaggioso per entrambe le parti, soprattutto in termini di riduzione dei tempi processuali.
L’obiettivo principale di questo strumento è aiutare le parti a raggiungere un accordo negoziale per una risoluzione pacifica del conflitto. A tal fine sarà necessaria la piena collaborazione degli avvocati, aperti a possibili soluzioni prospettate dal Giudice.
Inoltre, per alcuni studiosi, anche se la proposta conciliativa non porta alla risoluzione del caso, può comunque escludere la possibilità per le parti che l’hanno rifiutata di richiedere un indennizzo secondo la legge Pinto (legge n. 89/2001), nel caso in cui il processo superi il termine di durata ragionevole. Infatti, il rifiuto di una proposta “ragionevole” potrebbe essere apprezzata dal Giudice nominato nel procedimento ex L. Pinto come causativa del protrarsi del processo, o peggio, come mera strategia processuale per non addivenire ad un giudicato.
Ulteriormente, già acquisita alla giurisprudenza della Corte di Cassazione, l’interpretazione secondo cui, in tema di equa riparazione ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89, l’esistenza di un danno non patrimoniale può essere esclusa nelle ipotesi in cui il protrarsi del giudizio appaia rispondente ad uno specifico interesse della
parte, il che appunto avviene, ad esempio, quando la lite sia stata gestita fuori del processo, conclusosi con l’estinzione per inattività delle parti a seguito di transazione stragiudiziale, lì dove l’interesse delle parti sia stato quello alla perdurante pendenza del giudizio per coltivare la prospettiva della definizione in sede stragiudiziale (Cass. Sez. 1, 13/04/2006, n. 8716; Cass. Sez. 1, 11/03/2005, n. 5398). (cfr. Civile Sent. Sez. 2 Num. 13366 Anno 2022 – pubb 28/04/2022)
Questo orientamento può essere ad ogni modo controbilanciato dall’evidenza per cui l’articolo 2, comma 2 sexies, lettera c, della legge numero 89 del 2001, presenta – dalla semplice lettura – un ambito di applicazione limitato.
Ed, invero dalla lettura di alcuni ricorsi ritenuti, inammissibili e/o non accolti, quello che può “aver giocato a sfavorevolmente”, oltre una visione dell’organo giudicante, potenzialmente “severa” del dato normativo, può essere stata la non puntuale valorizzazione in sede di redazione del ricorso ex L. Pinto, dell’iter del processo presupposto, ad esempio rispetto ad una intensa attività (transattiva) extraprocessuale, in ragione del quale il Giudice di merito ha potuto realizzato il legittimo convincimento, per “presunzioni semplici”, di trovarsi dinanzi o ad una strategia processuale dei procuratori tesa a protrarre oltre ragionevolezza i termini di definizione del giudizio o, peggio, un disinteresse alla coltivazione del processo, poi definitosi per “stanchezza” delle parti ed abbandono.
Quello che appare certo è che il dato legislativo – art. 2, comma 2-sexies, lettera c), della legge n. 89 del 2001 – stabilisce una presunzione legale di non esistenza di pregiudizio causato dalla durata irragionevole di un processo – in SOLI due casi specifici: primo, quando un processo si conclude per rinuncia secondo l’articolo 306 del codice di procedura civile; secondo, quando si estingue per inattività delle parti, come previsto dall’articolo 307 dello stesso codice.
È importante, quindi, sottolineare che non vi è alcun riferimento all’ipotesi contemplata dall’articolo 309 del codice di procedura civile. Così come parimenti non vi possa essere alcun tipo di preclusione in ordine ad una conciliazione o transazione intervenuta ai sensi dell’art 309 bis c.p.c. Quest’ultimo articolo riguarda una situazione completamente diversa, ovvero l’estinzione improvvisa di un processo a causa della mancata presenza delle parti in due udienze consecutive. Questa estinzione, resa definitiva dalla modifica apportata al primo comma dell’articolo 181 del codice di procedura civile dal Decreto Legge numero 112 del 25 giugno 2008, comporta la rimozione della causa dall’elenco delle udienze.
Pertanto, l’articolo 309 del codice di procedura civile descrive un caso di estinzione immediata del processo, che non può essere considerato equivalente, ai fini dell’applicazione della cosiddetta “Legge Pinto” (legge per il risarcimento del danno da irragionevole durata dei processi), alle situazioni previste dagli articoli 306 e 307. La particolarità dell’estinzione ai sensi dell’articolo 309 risiede nel fatto che essa è legata esclusivamente alla mancata partecipazione delle parti a due udienze consecutive, indipendentemente dalla volontarietà dell’assenza o dall’omissione di specifici adempimenti richiesti dall’articolo 307.
Ulteriormente, l’Ordinanza n. 10336 del 2020, evidenzia quanto segue: “…la circostanza che le parti siano pervenute ad una conciliazione giudiziale (costituente la causa dell’estinzione del giudizio) dimostra in re ipsa che, fino al momento della conclusione di detta transazione, il contrasto tra le parti sussisteva e, dunque, sussisteva l’interesse delle stesse parti ad una pronuncia giudiziale su tale contrasto. Questa Corte ha, infatti, ripetutamente affermato che in materia di equa riparazione per durata irragionevole del processo, la dichiarazione di perenzione del giudizio, anche da parte del giudice amministrativo, non consente di ritenere insussistente il danno per disinteresse della parte a coltivare il processo, in quanto in tal modo verrebbe a darsi rilievo ad una circostanza sopravvenuta – la dichiarazione di estinzione del giudizio successiva rispetto al superamento del limite di durata ragionevole del processo. In definitiva, l’assunto della corte territoriale, che appare fare riferimento alla presunzione di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2 sexies, lett.c), che ritiene l’estinzione del giudizio, seppur determinata da conciliazione giudiziale, causa del disinteresse delle parti, risulta apodittico, là dove omette di motivare in punto di permanenza dell’interesse delle parti ad una pronuncia giudiziale sul loro contrasto fino al momento in cui esse si risolsero a comporre tale lite in via transattiva”.
Per converso alcuni provvedimenti della Corte di Cassazione (cfr. Civile Sent. Sez. 2 Num. 13366 Anno 2022) riportano il principio per cui, “proprio perché l’art. 2, comma 2-sexies, della legge n. 89 del 2001, introdotto dalla legge n. 208 del 2015, contempla un elenco di presunzioni iuris tantum di insussistenza del pregiudizio da irragionevole durata del processo, le ipotesi presentate nel ricorso costituiscono prova “completa”, alla quale il giudice di merito può legittimamente ricorrere, anche in via esclusiva, salvo pur sempre il limite della motivazione del proprio convincimento, nonché quello dell’esame degli eventuali elementi indiziari contrari al fatto ignoto dell’inesistenza del pregiudizio da irragionevole durata del processo, che si pretende legislativamente di desumere tramite l’allestita presunzione. L’accertamento dell’esistenza, sufficienza e rilevanza della prova contraria, che consenta il superamento delle presunzioni di insussistenza del pregiudizio da irragionevole durata del processo, di cui all’art. 2, comma 2- sexies, implica una tipica indagine di fatto, istituzionalmente attribuita dalla legge al giudice di merito, ma pur sempre sindacabile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360, comma
1, n. 5, c.p.c. (Cass. Sez. 2, 10/10/2019, n. 25542).”
In conclusione negli ultimi anni è possibile apprezzare una interpretazione più “severa” del dato normativo da parte delle Corti, soprattutto in presenza di Ricorsi ex L. Pinto ove non vengono valorizzate efficacemente le ragioni causative della lungaggine del processo, doverosa, a maggior ragione, in presenza di contenzioni definiti mediante conciliazioni e transazioni, in presenza delle quali non è assolutamente negato il diritto ma ove è necessaria una ancor più attenta valutazione di opportunità.