Legge Pinto: il ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo

Il ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo
Legge Pinto e preclusioni alla luce della legge di stabilità 2016

La Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali è una convezione internazionale sottoscritta in seno al Consiglio d’Europa e ha come scopo quello di riconoscere e tutelare i diritti più importanti dell’Uomo.

La tutela prevista dalla CEDU è “effettiva” in quanto è stata prevista, negli anni ’50, la creazione anche di un organo giurisdizionale ad hoc, la Corte Europea, con sede a Strasburgo, competente a conoscere dei ricorsi presentati non solo dagli Stati aderenti alla CEDU, bensì anche dalle persone fisiche che vedono lesi i diritti riconosciuti dalla Convenzione. Anche l’Italia ha aderito alle disposizioni contenute nella CEDU, ratificandola e dandone esecuzione nell’ordinamento interno attraverso la Legge n. 848/55. A partire da quel momento, il nostro ordinamento si è conformato a quanto previsto a livello europeo, riconoscendo la possibilità di adire la Corte nel caso in cui vengano violati i diritti riconosciuti e tutelati dalla Convenzione e aventi efficacia per tutti i Paesi aderenti alla stessa.

Il ricorso alla Corte Europea di Strasburgo ha avuto, nel corso degli anni, uno sviluppo inaspettato: diverse sono state le sentenze emesse dalla Corte e che hanno coinvolto lo Stato italiano, creando una giurisprudenza di tutto riguardo, la cui osservanza è stata sin da subito oggetto di monito per i giudici nazionali. Diversi i diritti enunciati dalla CEDU che meritano di essere richiamati: il diritto alla vita; il diritto alla libertà e alla sicurezza personale; il diritto alla libertà di pensiero e di opinione, di riunione e di associazione; il diritto ad un’equa amministrazione della giustizia.

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Legge Pinto: Sentenza sul Danno Patrimoniale e perdita di chance

Nell’ambito del danno indennizzabile ai sensi della cd. legge Pinto (89/2001) rientra sia il danno patrimoniale che quello non patrimoniale (articolo 2, comma 1, prima parte). In tal senso, del resto, è la stessa giurisprudenza della Corte di Strasburgo, la quale non esclude affatto tale voce dall’ambito del pregiudizio astrattamente indennizzabile, limitandosi solo a chiedere la prova della sua sussistenza.

La legge Pinto impone al giudice, che ritenga sussistente un danno patrimoniale, in conseguenza della accertata irragionevole durata del procedimento (civile o penale) presupposto, di provvedere a valutare i danni, ai sensi dell’articolo 2056 Cc, e cioè liquidando il lucro cessante in via equitativa (articolo 2056, secondo comma) e il danno emergente ai sensi degli articoli 1223 o 1226 Cc, e cioè provandolo (an), anche nel suo specifico ammontare (quantum) ovvero ‑ sotto questo ultimo aspetto ‑ chiedendo al giudice una liquidazione in via equitativa.

La precisa indicazione di un ammontare del danno che, per quanto problematica, non è ipotesi che può essere esclusa in astratto, va ‑ naturalmente ‑ ipotizzata solo in quanto «conseguenza immediata e diretta» dell’eccesso di durata del procedimento, non quale danno complessivamente subito in ragione dei provvedimenti adottati nel corso del procedimento (nella specie: la privazione della libertà personale) o dallo stesso instaurarsi del procedimento (che poi ‑come nella specie ~ si sia concluso con l’assoluzione dell’imputato).

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Sentenza di passaggio in giudicato della sentenza civile: significato e cause.

La sentenza come noto sancisce la fine di un procedimento, salvo che questa venga impugnata; ebbene con il passaggio in giudicato non è più possibile impugnare il provvedimento. Quindi, il passaggio in giudicato sancisce la conclusione definitiva del processo, la sentenza passata in giudicato acquista certezza definitiva e le questioni da essa decise non possono più essere messe in discussione.

Per legge [1], si intende passata in giudicato «la sentenza che non è più soggetta né a regolamento di competenza, né ad appello, né a ricorso per cassazione, né a revocazione».

Come una sentenza può passare in giudicato?
a) la sentenza di primo grado o successiva (per esempio sentenza di appello) passa in giudicato quando non viene impugnata nei termini stabiliti dalla legge.

i termini per impugnare la sentenza possono essere brevi o lunghi, come spiegato anche in questo articolo

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Pansini (ANF): Plauso per l’intervento della Corte Costituzionale sulla Legge Pinto

Il segretario generale dell’Associazione Nazionale Forense, avv. Luigi Pansini interviene sulla pronuncia n. 88 della Corte Costituzionale depositata il 26/04/2018.
Ammissibili i ricorsi in pendenza di processo presupposto. Illegittimità costituzionale dell’art. 4.

“Bene l’intervento della Corte Costituzionale che, con la pronuncia n. 88 di ieri, va a colmare le lacune e le storture della ‘Legge Pinto’ sui ritardi dei processi, ma il fatto che la Corte debba intervenire quasi a supplenza del legislatore non restituisce un’immagine confortante dello stato della giustizia in Italia. Infatti secondo i giudici della Consulta, la legge Pinto è costituzionalmente illegittima là dove non prevede che la domanda di equa riparazione possa essere proposta in pendenza del procedimento in cui è maturato l’irragionevole ritardo. La legge, anziché prevenire i processi lunghi e rimediare agli effetti delle lungaggini, non offriva alcuna tutela proprio nei casi più gravi, nei quali non vi è neppure certezza che la sentenza, ancorché in ritardo, possa comunque arrivare”.

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Motivi di esclusione per l’ottenimento dell’equo indennizzo. Casi concreti

Il nostro sistema giudiziario, per decenni, ha subito una sorta di atrofia normativa in merito ad un argomento di notevole interesse: la ragionevole durata del processo e il ristoro attraverso un equo indennizzo. È proprio in attuazione di una consolidata giurisprudenza europea, grazie alle sentenze e ai moniti della Corte Europea di Strasburgo, e alla più volte richiamata Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, comunemente denominata CEDU, la quale riconosce a livello europeo i diritti più importanti per l’Uomo, la cui tutela è un presupposto imprescindibile per una società giusta ed equa, che finalmente è stato fatto un passo importante per la nostra legislazione.

Si ricorda, infatti, che tra i diritti fondamentali riconosciuti dagli Stati europei firmatari della CEDU, l’art. 6 prevede l’importantissimo diritto ad ottenere un processo equo e che abbia una durata ragionevole, con la altrettanto importante conseguenza di poter ottenere, in caso di sua violazione, il risarcimento del danno. Ben siamo consapevoli di quanto il nostro Paese sia rimasto, per anni, lacunoso al riguardo: nonostante il riconoscimento, negli anni ’50, della validità della CEDU, che pur sempre una Convenzione internazionale è, il nostro sistema giudiziario era sprovvisto di un rimedio interno, che potesse essere attivato in maniera rapida ed efficiente dai singoli cittadini, al fine di ottenere giustizia in caso di lesione al diritto ad un processo equo e ragionevole.

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Legge Pinto: La Cassazione esclude l’esecutato inadempiente

a) Debitore esecutato rimasto inattivo
Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 2, sentenza n. 1812/18; depositata il 24 gennaio
Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 2, sentenza 5 dicembre 2017 – 24 gennaio 2018, n. 1812 Presidente Petitti – Relatore Manna

Con la sentenza n. 1812/2018, depositata lo scorso 24 gennaio, i giudici di legittimità affermano che il debitore esecutato rimasto inattivo non ha diritto ad alcun indennizzo per l’irragionevole durata del processo esecutivo.
Secondo gli ermellini la procedura esecutiva è preordinata all’esclusivo interesse del creditore,tanto più se il debitore esecutato è rimasto inattivo nel corso dell’esecuzione.

In particolare:
“Cass. n. 89/16 ha osservato che il debitore esecutato rimasto inattivo non ha diritto ad alcun indennizzo per l’irragionevole durata del
processo esecutivo che è preordinato all’esclusivo interesse del creditore, sicché egli – a differenza del contumace nell’ambito di un processo
dichiarativo – è soggetto al potere coattivo del creditore, recuperando solo nelle eventuali fasi di opposizione ex artt. 615 e 617 c.p.c., la cui
funzione è diretta a stabilire un separato ambito di cognizione, la pienezza della posizione di parte, con possibilità di svolgere contraddittorio
e difesa tecnica.
Ritiene, pertanto, la Corte di dare continuità a quest’ultimo indirizzo negativo, non avendo la parte privata allegato nella fattispecie alcuno
specifico interesse a che l’esito espropriativo della procedura a suo carico si realizzasse in tempi rapidi.”

(Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 2, sentenza n. 1812/18;
depositata il 24 gennaio)
Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 2, sentenza 5 dicembre 2017 – 24 gennaio 2018, n. 1812
Presidente Petitti – Relatore Manna

In fatto

Con decreto del 5.12.2015 la Corte d’appello di Roma, condannava il Ministero della Giustizia al pagamento in favore di V.W. della somma di
Euro 20.000,00 a titolo di equa riparazione ex lege n. 89/01, per la durata irragionevole (17 anni e 7 mesi di eccedenza) di una procedura
esecutiva immobiliare svoltasi innanzi al Tribunale di Avellino a carico della stessa ricorrente, quale debitrice esecutata. Attribuiva, inoltre, le
spese del procedimento al (difensore della V. , dichiaratosi antistatario.
Per la cassazione di tale decreto ricorre il Ministero della Giustizia, sulla base di due motivi.
Resistono con controricorso M.F. , M.M. e A. , quali eredi di V.W. , nonché, in proprio, l’avv. M.E. , che aveva difeso quest’ultima nel
procedimento innanzi alla Corte capitolina.

Motivi della decisione

1. – Il primo motivo di ricorso deduce la violazione o falsa applicazione dell’art. 2 legge n. 89/01, in relazione al n. 3 dell’art. 360 c.p.c., in
quanto a favore del debitore esecutato non opera, in linea di principio, la presunzione di danno da ritardo.
2. – Il secondo motivo lamenta, in relazione al n. 5 dell’art. 360 c.p.c., l’omessa motivazione su di un fatto decisivo e. controverso, quale la
durata ragionevole triennale della procedura esecutiva presupposta, senza considerarne le varie dilazioni non imputabili alla struttura
giudiziaria (opposizione esecutiva, istanza di conversione, rinvii chiesti ed ottenuti per componimento bonario, astensione degli avvocati,
difficoltà di stima del compendio immobiliare pignorato, pluralità di creditori e di debitori e non agevole vendita dei beni).
3. – Premesso che (al contrario di quanto opina parte controricorrente) le ragioni articolate dal Ministero non integrano un’eccezione (e meno
che mai una domanda) nuova, ma una difesa, essendo volte a negare uno dei fatti costitutivi della pretesa fatta valere in giudizio, i due
motivi, da esaminare congiuntamente, sono fondati.
Sul diritto del debitore esecutato ad ottenere, in linea di principio, l’equa riparazione prevista dalla legge n. 89/01 per la durata irragionevole
del processo di espropriazione a suo carico, la giurisprudenza di questa Corte inizialmente non è stata univoca.
A sostegno della soluzione affermativa, Cass. n. 6459/12 ha osservato che nel processo di esecuzione il dritto del cittadino al giusto processo (come delineato dalla nuova formulazione dell’art. 111 Cost.) deve essere soddisfatto attraverso il contraddittorio tra le parti in ogni fase
processuale in cui si discuta e si debba decidere circa diritti sostanziali o posizioni comunque giuridicamente protette, tenendo conto del
correlato e concreto interesse delle parti stesse ad agire, a contraddire o ad opporsi per realizzare in pieno il proprio diritto di difesa sancito
dall’art. 24 Cost.; pertanto, anche il debitore esecutato, in quanto parte, è legittimato a richiedere l’indennizzo ex art. 2 legge 24 marzo 2001
n.89 per l’irragionevole protrarsi del processo esecutivo (la soluzione affermativa sembra presupposta anche da Cass. n. 5265/03; mentre
Cass. nn. 19435/05, 15611/02, 14885/02 e 13768/02 nell’affermare l’applicazione della legge n. 89/01 anche alle procedure esecutive si
riferiscono a domande d’equa riparazione proposte da soggetti creditori, e non da debitori esecutati).
Per la negativa, Cass. nn. 26267/13 e 17153/13 hanno rilevato che non ha diritto all’equa riparazione per irragionevole durata del
procedimento esecutivo il debitore esecutato che, essendo comproprietario dell’immobile pignorato, non abbia alcun interesse al rapido
svolgimento della procedura e, anzi, si sia avvantaggiato del suo protrarsi, avendo mantenuto, medio tempore, il compossesso giuridico del
bene.
Una soluzione intermedia è stata prospettata da Cass. n. 23630/13, in un’ipotesi, però, del tutto particolare di valorizzazione
dell’atteggiamento tenuto in concreto dal debitore per favorire o meno l’esito espropriativo della procedura.
A partire da Cass. n. 8540/15 si è osservato che il debitore esecutato, sebbene sia parte (non già nel senso del diritto processuale interno,
ma ai soli fini in questione) del processo esecutivo, non è necessariamente percosso dagli effetti negativi di un’esecuzione forzata di durata
irragionevole, atteso che dall’esito finale di tale processo egli ritrae essenzialmente un (giusto) danno. Pertanto, quella presunzione di danno
non patrimoniale derivante dalla pendenza del processo, affermata in linea generale a partire dai noti arresti nn. 1338, 1339 e 1340/04 delle
S.U. di questa Corte, ma negata dagli stessi precedenti con riguardo a situazioni specifiche (ivi esempi in particolare, quella del conduttore
convenuto in giudizio per il rilascio dell’immobile locato), non può operare di regola quanto alla posizione del debitore esecutato. Questi,
nell’ambito del procedimento di equa riparazione ex lege n. 89/01, ha l’onere di allegare non un generico ma uno specifico suo interesse ad
un’espropriazione celere, e di dimostrarne l’effettiva esistenza, nel rispetto degli usuali oneri probatori gravanti sulla parte attrice.
Quindi, Cass. n. 14382/15 ha poi osservato che il diritto ad un processo giusto, paritario e diretto da un giudice terzo e imparziale (art. 111,
1 e 2 comma Cost. e 6 CEDU), non è coinvolto nella soluzione delle questioni inerenti alla durata irragionevole del processo stesso. La quale
ultima è fonte del diritto ad un’equa riparazione per il paterna d’animo che ogni pendenza processuale provoca ex se, vi siano state o non
violazioni di altre garanzie. Pertanto, dalla copertura costituzionale e convenzionale di queste ultime non è possibile né dedurre né inferire il
diritto ad un’equa riparazione, allorché il processo abbia ecceduto il termine di durata ragionevole.
Infine, Cass. n. 89/16 ha osservato che il debitore esecutato rimasto inattivo non ha diritto ad alcun indennizzo per l’irragionevole durata del
processo esecutivo che è preordinato all’esclusivo interesse del creditore, sicché egli – a differenza del contumace nell’ambito di un processo
dichiarativo – è soggetto al potere coattivo del creditore, recuperando solo nelle eventuali fasi di opposizione ex artt. 615 e 617 c.p.c., la cui
funzione è diretta a stabilire un separato ambito di cognizione, la pienezza della posizione di parte, con possibilità di svolgere contraddittorio
e difesa tecnica.
Ritiene, pertanto, la Corte di dare continuità a quest’ultimo indirizzo negativo, non avendo la parte privata allegato nella fattispecie alcuno
specifico interesse a che l’esito espropriativo della procedura a suo carico si realizzasse in tempi rapidi.
4. – In accoglimento del ricorso il decreto impugnato va, dunque, cassato; e decidendo la causa nel merito, la domanda di equa riparazione
proposta da V.W. deve essere respinta.
5. – Seguono le spese della fase di merito e del presente giudizio di legittimità, così come liquidate in dispositivo, a carico dei controricorrenti
ciascuno per la rispettiva quota ereditaria.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa il decreto impugnato e decidendo nel merito rigetta la domanda e condanna i controricorrenti, ciascuno per
la rispettiva quota ereditaria, alle spese del grado di merito e del presente processo di legittimità, che liquida rispettivamente in Euro 800,00
ed in Euro 1.000,00, in entrambi i casi oltre spese prenotate e prenotande a debito.

Legge Pinto: quali benefici dalla sua introduzione

La Legge Pinto come noto veniva approvata nel 2001, (anche) per scongiurare la mole sempre più imponente di ricorsi alla Corte dei diritti dell’uomo per l’eccessiva durata dei processi.

Il primo risultato non voluto è che con il crescere dei ricorsi e dell’accumularsi degli oneri dovuti dallo Stato aumentava l’allarmismo dei presidenti delle Corti d’appello d’italia, tanto che già nel 2010, per esempio, l’allora presidente della Cassazione Vincenzo Carbone già considerava improcrastinabile una revisione delle norme di pochi anni prima. Questi segnalava che i ricorsi pententi in poco tempo avevano toccato il numero di 37.393, dato in costante crescita tanto da mettere in seria difficoltà la struttura.

Da questa analisi nascevano le prime “riforme” tutte tese a circoscrivere e limitare l’impatto della norma e gli effetti anche contravvenendo agli orientamenti consolidati previsti dalla Cedu

Tali “riforma” il cui culmine si è avuto con la LEGGE DI BILANCIO  26 novembre 2017 hanno avuto l’effetto da un lato di comprimere le richieste e le relative liquidazioni dall’altro di “stimolare” gli uffici giudiziari a ridimensionare l’arretrato. Apice di questa tendenza con la c.d. “ricetta Barbuto” che ha sollecitato gli uffici giudiziari civili a concentrare gli sforzi di smaltimento delle cause a rischio Pinto. In questi anni l’arretrato ultratriennale dei tribunali civili è sceso di oltre il 38%, passando da quasi 650mila casi pendenti a 403mila. Gli affari ultrabiennali in appello sono passati da 198mila a 126mila, una riduzione del 37 per cento.

I dati resi nel corso del 2018 vedono per la prima volta dal 2015 il debito dello Stato nei confronti dei cittadini per indennizzi Pinto scendere.

Tale risultato è stato possibile sia per il minor numero di richieste presentate sia per la ridistribuzione delle competenze. Inoltre, per l’arretrato è stata creata una task force presso la Banca d’Italia, in ultimo sono state ridotte le cause a rischio indennizzo.

Grazie a questo lavoro il debito si è ridotto da 456 milioni a 336 milioni, un taglio del 27 per cento. Inoltre, come logica conseguenza, di tale piano si è avuta una riduzione dell’80% dei ricorsi in ottemperanza davanti al giudice amministrativo, oltre che azioni esecutive.

Di questi risultati non c’è ad ogni modo da rallegrarsi perché la giustizia italiana rimane una delle più lente in Europa e se il numero di cause è diminuito è anche grazie all’aumento dei costi di accesso alla giustizia sempre più gravoso.

Quanto alla Legge Pinto anche la riduzione del numero di ricorsi proposti è da ritrovarsi nell’inserimento di una serie di sbarramenti introdotti a seguito dell’ultima riforma, già dichiara in alcune sue norme incostituzionale. Uno su tutte il limite di richiesta di indennizzo in corso di giudizio.

In ultimo ci si attende una riforma sistemica della giustizia e degli organismi tanto da ridurre i tempi senza rinunciare ad una giustizia efficace ed attenta ai cittadini.

Fonte dati: Sole24Ore

Registrazione della sentenza – rilascio copie esecutive – conformi

È possibile ottenere la copia uso notifica della sentenza pur senza aver proceduto al pagamento dell’imposta di registro.

Tra i tanti balzelli cui è chiamato il cittadino per far valer le proprie ragioni, lo Stato ha ben pensato di inserire oramai da anni una imposta anche sugli atti giudiziari che definisco un giudizio in materia di controversia civile -anche parzialmente-, la c.d. “imposta di registrazione”. Tale imposta riguarda anche i decreti ingiuntivi esecutivi, i provvedimenti di aggiudicazione e quelli di assegnazione, anche in sede di scioglimento delle comunioni, i provvedimenti che rendono efficaci nello Stato sentenze straniere e i provvedimenti che dichiarano esecutivi i lodi arbitrali.

Chi deve pagare ?
Lo Stato per garantirsi il pagamento del provvedimento ha stabilito che l’obbligo di registrazione grava su tutte le parti del processo in via solidale, senza alcuna distinzione tra parte soccombente o vittoriosa.
Fatta questa premessa è necessario però fare una distinzione rispetto ai rapporti tra le parti, infatti, come noto, se il provvedimento di cui è causa pone le spese a carico della parte soccombente, questa è chiamata a rimborsare al vincitore le spese anticipate, ivi compreso l’eventuale pagamento dell’imposta di registro.
Quindi, l’obbligo di pagare seguirà la valutazione del giudice e quanto verrà stabilito nel dispositivo del provvedimento.
Pertanto, la parte che ha pagato l’imposta potrà chiedere la ripetizione delle somme al soccombente, per quanto stabilito nel provvedimento.

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LEGGE PINTO: La legittimazione ad agire – Chi ha diritto

La Legge Pinto, n. 89/2001, ha introdotto, nel nostro ordinamento, un rimedio contro le storture della giustizia italiana, sorte in seguito alle lungaggini processuali. Un problema ben noto a tutti, quello del pregiudizio subito da un attore o un convenuto durante le fasi di un processo, nel caso in cui lo stesso si prolunghi per un periodo irragionevole, provocando danni sia materiali che morali.

Ricordiamo, prima di tutto, che il diritto ad avere un processo con una durata equa e ragionevole è previsto dalla Convenzione per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali, comunemente nota come CEDU, elaborata dal Consiglio d’Europa e firmata a Roma nel 1950; l’art. 6 della Convenzione è molto chiara nell’esplicitare questo diritto fondamentale, prevedendo così: “Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale deciderà sia delle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che le venga rivolta”.

Nonostante la vigenza della Convenzione suddetta, l’Italia, nel corso degli anni, è stata spesso censurata da parte della Corte Europea per i diritti umani, in quanto si sono riscontrate ripetute e costanti violazioni di questo diritto fondamentale per tutti coloro che intraprendevano un’azione giudiziaria. Per porre rimedio ai frequenti richiami e per assicurare che la giustizia italiana non diventi un eccessivo onere per coloro che vogliano tutelarsi giudizialmente, il nostro legislatore è intervenuto dando concreta attuazione alla Convenzione richiamata, sprovvista di uno specifico strumento applicativo fino al 2001, anno di adozione della famosa Legge Pinto.

Una legge che ha dato una svolta al nostro sistema, introducendo un rimedio tutto “interno” al sistema giudiziario italiano, ponendo accanto al ricorso diretto alla Corte Europea, utilizzato fino a quel momento e ora previsto come extrema ratio, un meccanismo di tutela diretto e nazionale che garantisca il rispetto dei termini di durata ragionevole dei processi, prevedendo il risarcimento in casa di lesione di tale diritto, con susseguente equa riparazione tramite indennizzo.

Occorre, quindi, partire dall’esame di questa legge per comprendere chi e come può agire per chiedere e ottenere il diritto all’equa riparazione per violazione del congruo termine processuale.

Sicuramente deve pendere un giudizio, sia esso civile, penale o amministrativo, che perduri da tempo e che abbia provocato un danno alla parte in causa, sia essa attore o convenuto: la Legge Pinto, infatti, è molto generica a tal proposito, facendo presumere che le lungaggini processuali causino un danno a prescindere dalla posizione processuale ricoperta, di torto o ragione che sia, ma richiama tutte quelle posizioni che subiscono dei nocumenti derivanti da un evolversi abnorme della situazione giudiziaria. Quindi, la legittimazione attiva a proporre domanda per ottenere l’equa riparazione spetta a tutti coloro che abbiano, nel giudizio presupposto (ossia il giudizio di cui si discute la durata e il danno conseguente), la funzione di “parte processuale”. Si tiene anche in considerazione la parte nei cui confronti la sentenza definitiva produrrà i suoi effetti: si tratta del concetto di parte in senso sia formale che sostanziale.

Non incide assolutamente sulla proposizione della domanda di equa riparazione l’esito del processo presupposto: ciò che la parte contesta non è la giustizia o meno della sentenza, e quindi la sua soccombenza rispetto al processo, ma la eccessiva durata dello stesso, che le ha provocato un notevole danno, materiale o meno. Il danno che si contesta è, quindi, ancorato ad un termine che si ipotizza ragionevole ed entro il quale dovrebbe concludersi un processo. Questo significa che è possibile proporre domanda di equa riparazione anche se il giudizio presupposto si sia concluso con una transazione finale oppure, nel caso di un giudizio penale, ci sia stata l’estinzione del reato per la prescrizione dello stesso in seguito al trascorrere del tempo.

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Notifica legge pinto con pec

Come noto è possibile notificare il Decreto unitamente al Ricorso tramite Pec.

Bisogna però evidenziare che ai fini della validità della notifica, l’indirizzo PEC del destinatario deve essere inserito nel pubblico registro: Reginde a pena di nullità.

La legge sul punto è molto chiara: l’art. 14 DM 40/16 (regole operative di attuazione del processo amministrativo telematico) stabilisce che le notificazioni alle PA non costituite in giudizio si effettuano solo agli indirizzi PEC inseriti nei pubblici registri di cui all’art. 16 comma 12 Dl 179/12. Per pubblici elenchi s’intendono quelli previsti dagli artt. 4 e 16 comma 12 Dl 179, 16 comma 6 Dl 185/08 (L.2/09: attualmente dal novero è escluso il registro IPA contemplato in questa disposizione) e 6 bis Dlgs 82/05 (CAD) <<nonché il registro generale degli indirizzi elettronici, gestito dal Ministero della giustizia>>. Da questo assunto discende l’onere di notifica alle PA solo agli indirizzi di PEC inseriti nel registro tenuto dal Ministero della Giustizia e, nel caso non ne abbiano uno iscritto in questo elenco, come nella fattispecie, la notifica, per essere valida, dovrà essere effettuata secondo le ordinarie modalità <<cartacee>> (Tar Sicilia 1842/16).

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